La prima centrale elettrica a Caltavuturo
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 1 del 18 gennaio 2014
Il sig.Gaetano Sireci ci racconta dell’avvento dell’energia elettrica a Caltavuturo negli anni venti del secolo scorso.
“Ancora in quegli anni Caltavuturo era al buio, non esisteva la distribuzione nazionale della energia elettrica. Chi poteva permetterselo usava il lume a petrolio, le fiaccole, la lumiera ad olio ecc., alcuni le candele ad olio o le citolene
I pochi studenti per potere studiare a una certa ora, si rovinavano gli occhi per leggere a lume di candela . Gli artigiani non potevano usare gli attrezzi elettrici. La vita era molto lenta non si poteva progredire in nessun modo, considerato che si viveva di agricoltura fatta a mano.
Un giovane intraprendente dell’epoca, sapendo che a Palermo era arrivata la luce elettrica, ed altresì in qualche paese vicino, si intestardì e si prefissò il compito di portarla anche nel suo paese Caltavuturo, per scuoterlo da quel torpore in cui si trovava. Si impegnò con gli Amministratori locali di attivarsi per costruire una centrale elettrica con tutta la rete di illuminazione stradale fino a portarla all’interno delle case e fornire corrente elettrica in autonomia, cioè indipendente da altri paesi..Bussò alla porta di alcuni possidenti dell’epoca e cosi trovò dagli stessi sostegno economico.
Uno di questi signore era Antonino Sireci, detto don Nino.
Questi fece nascere a Caltavuturo l’impresa elettrica “Fratelli Sireci, Di Stefano, Bartolotta e Cirrito”. Si fece aiutare da suo zio Pietro Di Stefano e da un suo zio prete, don Pietro Sireci (che poi divenne Arciprete Latino di Palazzo Adriano ). Con mille difficoltà riuscì a portare avanti il progetto di elettrificazione. I primi operai elettricisti furono Francesco Giardina e Giuseppe Mannino sposato Catrisano. La centrale era formata da due grossi generatori a gasolio con lunghe cinghie di trasmissione di cuoio, una vasca di raffreddamento, ed un quadro di controllo, posta in via Cerda Taormina, oggi Via Giovanni Falcone. Successivamente, negli anni cinquanta, smise di produrre energia e la fece arrivare da Termini Imerese, (Russo), anche perché i generatori erano troppo rumorosi. Per conseguenza creò una sottostazione di arrivo nel locale superiore in via Silva.
Nel 1929, la corrente elettrica arriva a Caltavuturo suo paese, nel 1963 il governo con la “Nazionalizzazione” tolse la gestione privata della produzione e distribuzione dell’Energia Elettrica, creando l’ENEL. ( Ente Nazionale per l’Energia Elettrica).
L’avvento dell’energia elettrica fece si che in paese si costruissero quattro mulini elettrici, di proprietà dei Sigg. Di Stefano Pietro, Michele e Antonino Sireci, (entrambi in Via Liberta’ ora Via Roma), Giannopolo Vincenzo (c/da Purati) e Scaccia Nicolò (in Via Carlo Alberto ). Cosi i Caltavuturesi poterono macinare il grano direttamente in paese.
Io sono del parere che i cittadini dovrebbero conoscere la propria storia e gli avvenimenti più importanti che hanno contribuito allo sviluppo che ha caratterizzato quasi tutto il secolo scorso.
Chi di competenza dovrebbe sentire il dovere di far conoscere ai giovani di oggi chi sono stati gli uomini che hanno contribuito a portare il progresso, l’emancipazione ed a cambiare i modi di vivere del paese. Recentemente ho scritto al Sindaco del paese proponendo l’intestazione di una strada ad Antonino Sireci o in alternativa di opporre una targa commemorativa davanti il vecchio locale della centrale. Spero che questa pubblicazione faccia riflettere i giovani a fare qualcosa di creativo per portare sviluppo, ma soprattutto creare con genialità e tanta passione lavoro nella propria terra.
Salvatore Sciortino
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 1 del 18 gennaio 2014
Il sig.Gaetano Sireci ci racconta dell’avvento dell’energia elettrica a Caltavuturo negli anni venti del secolo scorso.
“Ancora in quegli anni Caltavuturo era al buio, non esisteva la distribuzione nazionale della energia elettrica. Chi poteva permetterselo usava il lume a petrolio, le fiaccole, la lumiera ad olio ecc., alcuni le candele ad olio o le citolene
I pochi studenti per potere studiare a una certa ora, si rovinavano gli occhi per leggere a lume di candela . Gli artigiani non potevano usare gli attrezzi elettrici. La vita era molto lenta non si poteva progredire in nessun modo, considerato che si viveva di agricoltura fatta a mano.
Un giovane intraprendente dell’epoca, sapendo che a Palermo era arrivata la luce elettrica, ed altresì in qualche paese vicino, si intestardì e si prefissò il compito di portarla anche nel suo paese Caltavuturo, per scuoterlo da quel torpore in cui si trovava. Si impegnò con gli Amministratori locali di attivarsi per costruire una centrale elettrica con tutta la rete di illuminazione stradale fino a portarla all’interno delle case e fornire corrente elettrica in autonomia, cioè indipendente da altri paesi..Bussò alla porta di alcuni possidenti dell’epoca e cosi trovò dagli stessi sostegno economico.
Uno di questi signore era Antonino Sireci, detto don Nino.
Questi fece nascere a Caltavuturo l’impresa elettrica “Fratelli Sireci, Di Stefano, Bartolotta e Cirrito”. Si fece aiutare da suo zio Pietro Di Stefano e da un suo zio prete, don Pietro Sireci (che poi divenne Arciprete Latino di Palazzo Adriano ). Con mille difficoltà riuscì a portare avanti il progetto di elettrificazione. I primi operai elettricisti furono Francesco Giardina e Giuseppe Mannino sposato Catrisano. La centrale era formata da due grossi generatori a gasolio con lunghe cinghie di trasmissione di cuoio, una vasca di raffreddamento, ed un quadro di controllo, posta in via Cerda Taormina, oggi Via Giovanni Falcone. Successivamente, negli anni cinquanta, smise di produrre energia e la fece arrivare da Termini Imerese, (Russo), anche perché i generatori erano troppo rumorosi. Per conseguenza creò una sottostazione di arrivo nel locale superiore in via Silva.
Nel 1929, la corrente elettrica arriva a Caltavuturo suo paese, nel 1963 il governo con la “Nazionalizzazione” tolse la gestione privata della produzione e distribuzione dell’Energia Elettrica, creando l’ENEL. ( Ente Nazionale per l’Energia Elettrica).
L’avvento dell’energia elettrica fece si che in paese si costruissero quattro mulini elettrici, di proprietà dei Sigg. Di Stefano Pietro, Michele e Antonino Sireci, (entrambi in Via Liberta’ ora Via Roma), Giannopolo Vincenzo (c/da Purati) e Scaccia Nicolò (in Via Carlo Alberto ). Cosi i Caltavuturesi poterono macinare il grano direttamente in paese.
Io sono del parere che i cittadini dovrebbero conoscere la propria storia e gli avvenimenti più importanti che hanno contribuito allo sviluppo che ha caratterizzato quasi tutto il secolo scorso.
Chi di competenza dovrebbe sentire il dovere di far conoscere ai giovani di oggi chi sono stati gli uomini che hanno contribuito a portare il progresso, l’emancipazione ed a cambiare i modi di vivere del paese. Recentemente ho scritto al Sindaco del paese proponendo l’intestazione di una strada ad Antonino Sireci o in alternativa di opporre una targa commemorativa davanti il vecchio locale della centrale. Spero che questa pubblicazione faccia riflettere i giovani a fare qualcosa di creativo per portare sviluppo, ma soprattutto creare con genialità e tanta passione lavoro nella propria terra.
Salvatore Sciortino
Dall'album dei ricordi .......
La Traversata delle Madonie
Propagandare la sana idea della montagna, questo l‘unico scopo della Ia edizione della Traversata delle Madonie, e proprio sotto questo auspicio, l’Associazione Pro Petralia, in collaborazione con le sezioni del Club Alpino Italiano di Palermo e di Petralia Sottana, organizzò nel lontano 1949 la Coppa Challenge “Petralia” Ia Traversata delle Madonie, gara di marcia a squadre.
Una traversata molto diversa da quella che la maggior parte di noi ricorda, infatti l’art. 1 del regolamento, stilato 55 anni fa, recitava che la partenza sarebbe stata data ogni anno da un diverso centro madonita, tra l’altro estratto a sorte, e che l’arrivo sarebbe stato, comunque, sempre a Petralia Sottana.
Spulciando ancora quel regolamento, si può capire come le prime edizioni della corsa non avessero niente a che vedere con quella d’oggi, l’art. 4 imponeva la presenza di tre elementi per squadra, l’art. 6 obbligava tutti i partecipanti a vestire la tenuta di montagna con scarponi e sacco del peso di 5 Kg e l’art. 5 escludeva categoricamente il carattere di marcia podistica o di corsa campestre, recitando che sarebbero state inesorabilmente squalificate sul campo, dagli appositi commissari di gara, le squadre sorprese a correre.
Quel 25 settembre del 1949 fu certamente una giornata indimenticabile, non solo perché si disputò la Ia traversata, ma perché, come tanti altri ancora ricordano, s’ inaugurò il nuovo campo sportivo e dopo la partita inaugurale migliaia di spettatori poterono assistere anche alla rievocazione dell’antico Ballo Pantomima della Cordella.
Ritornando comunque a parlare della traversata, ricordiamo che la partenza quell’anno fu data da Collesano alle 8.30 e il percorso stabilito come segue: sede Cai di Collesano, Zubbio, Volpignano, Mussotomo, Piano Zucchi, Casa Castiglia, Balata di Marfa, Bosco Comunello, Piano Battaglia, Portella Pozzillo, Faguare, Passo Canale, Pomeri, Portella Rocche di Meli, S.Tiero, Ponte di S.Brancato, Pietrusa Bassa, Petralia Sottana ( traguardo al Palazzo del Giglio).
Il rifugio Giuliano Marini di Piano Battaglia costituì la prima tappa, e alla squadra che, rispettando il regolamento, impiegò meno tempo delle altre fu assegnata una coppa offerta dalla sezione del CAI di Palermo.
Le squadre partecipanti furono ventuno, di queste, due rappresentavano il comune di Petralia Sottana, due la sezione del CAI di Petralia Sottana, due la Pro Petralia, tre il CAI di Polizzi Generosa, una l’U.S. “G.Pasta” di Polizzi Generosa, due il neo comune di Castellana Sicula, una il CAI di Petralia Soprana, due la società agricola “G. Garibaldi “ di Nociazzi, una il CAS di Termini Imerese, due il CAI di Castelbuono, due la polisportiva Castelbuono e una il Circolo Sportivo di Gangi.La vittoria finale fu conquistata dalla squadra A della Pro Petralia che era composta da Calogero Pantano, Mario Pantano e Calogero Fazio, i vincitori ricevettero in premio una medaglia di argento dorato e la Pro Petralia la Coppa Challenge, quale società prima classificata.
Poche cose cambiarono in occasione della IIa edizione che si disputò il 10 settembre 1950, quell’anno il via fu dato dalla sede del CAI di Polizzi Generosa, ed ai premi già assegnati nell’edizione precedente furono aggiunti gli indennizzi per le spese sostenute per gli equipaggiamenti e gli allenamenti: £ 15.000 alla Ia squadra classificata, £ 6.000 alla seconda, £ 4.500 alla terza e £ 3.000 alla quarta ed alla quinta. Vinse l’”U.S. Pasta” di Polizzi Generosa, la cui squadra era composta dai migliori rappresentanti delle squadre iscritte alla Ia traversata, essi erano Giovanni Lo Re, Salvatore Schimmenti e Mariano Ilardi.
L’euforica partecipazione del primo anno non si ripetè, però, negli anni seguenti, l’edizione massacrante del 1949 aveva scoraggiato molti degli amanti della montagna, i quali non parteciparono alla IIa traversata, e probabilmente anche per questo motivo non fu possibile organizzarla nel 1951.
La terza traversata si disputò così il 7 settembre 1952, la IVa il 13 settembre 1953, e in ambedue le edizioni si gareggiò sul circuito delle “due Petralie” con partenza ed arrivo al Palazzo del Giglio di Petralia Sottana, la vittoria fu conquistata, sia nel ’52 che nel ’53, sempre dalla squadra della Pro Petralia formata da Giuseppe Farinella e Calogero Spinoso. Inaspettatamente quello che era diventato un appuntamento fisso per le manifestazioni petraliesi di settembre si interruppe e la traversata non venne più disputata, solo nel 1969 gli amministratori della Pro Loco decisero di riprendere la corsa facendo così correre la Va edizione in occasione della festa del primo maggio e fissando la partenza, anche per gli anni successivi, da Piano Battaglia. Per un madornale errore questa fu pubblicizzata come IVa traversata, ma in realtà essa era la Va, l’edizione successiva fu organizzata due anni più tardi, sabato 1o maggio 1971, e in quell’anno si apportarono parecchi cambiamenti, il più importante di questi fu quello che la traversata fu trasformata in gara di marcia in montagna e non più a squadre.
La Traversata delle Madonie
Propagandare la sana idea della montagna, questo l‘unico scopo della Ia edizione della Traversata delle Madonie, e proprio sotto questo auspicio, l’Associazione Pro Petralia, in collaborazione con le sezioni del Club Alpino Italiano di Palermo e di Petralia Sottana, organizzò nel lontano 1949 la Coppa Challenge “Petralia” Ia Traversata delle Madonie, gara di marcia a squadre.
Una traversata molto diversa da quella che la maggior parte di noi ricorda, infatti l’art. 1 del regolamento, stilato 55 anni fa, recitava che la partenza sarebbe stata data ogni anno da un diverso centro madonita, tra l’altro estratto a sorte, e che l’arrivo sarebbe stato, comunque, sempre a Petralia Sottana.
Spulciando ancora quel regolamento, si può capire come le prime edizioni della corsa non avessero niente a che vedere con quella d’oggi, l’art. 4 imponeva la presenza di tre elementi per squadra, l’art. 6 obbligava tutti i partecipanti a vestire la tenuta di montagna con scarponi e sacco del peso di 5 Kg e l’art. 5 escludeva categoricamente il carattere di marcia podistica o di corsa campestre, recitando che sarebbero state inesorabilmente squalificate sul campo, dagli appositi commissari di gara, le squadre sorprese a correre.
Quel 25 settembre del 1949 fu certamente una giornata indimenticabile, non solo perché si disputò la Ia traversata, ma perché, come tanti altri ancora ricordano, s’ inaugurò il nuovo campo sportivo e dopo la partita inaugurale migliaia di spettatori poterono assistere anche alla rievocazione dell’antico Ballo Pantomima della Cordella.
Ritornando comunque a parlare della traversata, ricordiamo che la partenza quell’anno fu data da Collesano alle 8.30 e il percorso stabilito come segue: sede Cai di Collesano, Zubbio, Volpignano, Mussotomo, Piano Zucchi, Casa Castiglia, Balata di Marfa, Bosco Comunello, Piano Battaglia, Portella Pozzillo, Faguare, Passo Canale, Pomeri, Portella Rocche di Meli, S.Tiero, Ponte di S.Brancato, Pietrusa Bassa, Petralia Sottana ( traguardo al Palazzo del Giglio).
Il rifugio Giuliano Marini di Piano Battaglia costituì la prima tappa, e alla squadra che, rispettando il regolamento, impiegò meno tempo delle altre fu assegnata una coppa offerta dalla sezione del CAI di Palermo.
Le squadre partecipanti furono ventuno, di queste, due rappresentavano il comune di Petralia Sottana, due la sezione del CAI di Petralia Sottana, due la Pro Petralia, tre il CAI di Polizzi Generosa, una l’U.S. “G.Pasta” di Polizzi Generosa, due il neo comune di Castellana Sicula, una il CAI di Petralia Soprana, due la società agricola “G. Garibaldi “ di Nociazzi, una il CAS di Termini Imerese, due il CAI di Castelbuono, due la polisportiva Castelbuono e una il Circolo Sportivo di Gangi.La vittoria finale fu conquistata dalla squadra A della Pro Petralia che era composta da Calogero Pantano, Mario Pantano e Calogero Fazio, i vincitori ricevettero in premio una medaglia di argento dorato e la Pro Petralia la Coppa Challenge, quale società prima classificata.
Poche cose cambiarono in occasione della IIa edizione che si disputò il 10 settembre 1950, quell’anno il via fu dato dalla sede del CAI di Polizzi Generosa, ed ai premi già assegnati nell’edizione precedente furono aggiunti gli indennizzi per le spese sostenute per gli equipaggiamenti e gli allenamenti: £ 15.000 alla Ia squadra classificata, £ 6.000 alla seconda, £ 4.500 alla terza e £ 3.000 alla quarta ed alla quinta. Vinse l’”U.S. Pasta” di Polizzi Generosa, la cui squadra era composta dai migliori rappresentanti delle squadre iscritte alla Ia traversata, essi erano Giovanni Lo Re, Salvatore Schimmenti e Mariano Ilardi.
L’euforica partecipazione del primo anno non si ripetè, però, negli anni seguenti, l’edizione massacrante del 1949 aveva scoraggiato molti degli amanti della montagna, i quali non parteciparono alla IIa traversata, e probabilmente anche per questo motivo non fu possibile organizzarla nel 1951.
La terza traversata si disputò così il 7 settembre 1952, la IVa il 13 settembre 1953, e in ambedue le edizioni si gareggiò sul circuito delle “due Petralie” con partenza ed arrivo al Palazzo del Giglio di Petralia Sottana, la vittoria fu conquistata, sia nel ’52 che nel ’53, sempre dalla squadra della Pro Petralia formata da Giuseppe Farinella e Calogero Spinoso. Inaspettatamente quello che era diventato un appuntamento fisso per le manifestazioni petraliesi di settembre si interruppe e la traversata non venne più disputata, solo nel 1969 gli amministratori della Pro Loco decisero di riprendere la corsa facendo così correre la Va edizione in occasione della festa del primo maggio e fissando la partenza, anche per gli anni successivi, da Piano Battaglia. Per un madornale errore questa fu pubblicizzata come IVa traversata, ma in realtà essa era la Va, l’edizione successiva fu organizzata due anni più tardi, sabato 1o maggio 1971, e in quell’anno si apportarono parecchi cambiamenti, il più importante di questi fu quello che la traversata fu trasformata in gara di marcia in montagna e non più a squadre.
Cosa c'è, anzi c'era scritto, sotto la Meridiana
La lapide situata sotto la Merdiana di piazza Misericordia, a Petralia Sottana, oggi presenta alcune partì corrose, quasi illeggibili, con scomparsa di lettere e di intere parole, quale "VICTRIX" alla fine del secondo rigo. Nell'ultimo era indicata la data, di cui rimane solo "X IND." che fu o quella del 1581-1582 o la successiva del 1596-1597, le sole in tempo di Sede Vacante della Diocesi di Messina (dal 1582 al 1586 e nel 1597 e 1598). Circa l'anno, in base all'iscrizione "Antonio Aragona e Cardona", se riferita al Duca di Montano morto nel 1583 o 1584, dovrebbe essere stato il 1582, ma sorgerebbero forti dubbi in quanto, a parte il titolo principesco, è assieme citata la"Madre di lui" (Antonia Cardona) già avanti negli anni e forse allora non più in vita e perché non risulta in quell'anno "Arcipresbitero"Don Pietro Macalosia. Gli stessi elementi farebbero invece ritenere che la X indizione fosse stata quella successiva del 1596-1597, si ha infatti: lo stesso nome portato dal nipote e successore (non sempre essendo aggiunto il patronimico Moncada); il suo titolo di prìncipe (di Paterno); la Madre principessa (Maria Aragona) a ragione citata con il figlio dodicenne nel 1597; l’'anno, appunto il 1597, in cui la Sede Vescovile fu vacante e Don Pietro Macalosia fu Arcipresbitero.
Ed è appunto l’'anno 1597 che, allora ancora leggibile, è stato trascrìtto da Giuseppe Inguaggiato Collisani in " Cenni Topografici e Storici di Petralia Sottana, anno 1908 Tipografia Prillila.
Ecco di seguito la traduzione del testo che si trova appunto sotto la Meridiana :
DEO OFUMO MAXIMO MATER MISERICORDIAE DEI IRAE SEMPER VICTRIX
MADRE DI MISERICORDIA CHE PLACA SEMPRE L'IRA DI DIO REGNANTE IL SERENISSIMO FILIPPO RE DI SICANIA (Filippo II° RE di Spegna, di Sicilia etc. ESSENDO GLI ILLUSTRISSIMI ED ECCELLENTISSIMI DOMINUS ANTONIO ARAGONA E CARDONA DUCA DI MONTALTO NOSTRO PRINCIPE E LA MADRE DI LUI (nostra) PRINCIPESSA L'ILL.mo DON GIUSEPPE GIRINO VICARIO GENERALE DELLA DIOCESI DI MESSINA STANTE LA SEDE VACANTE, DON PIETRO MACALOSIA ARCIPRESBITERO - (Anno dalla nascita del Signore 1597 - X INDIZIONE)
mlp
Ed è appunto l’'anno 1597 che, allora ancora leggibile, è stato trascrìtto da Giuseppe Inguaggiato Collisani in " Cenni Topografici e Storici di Petralia Sottana, anno 1908 Tipografia Prillila.
Ecco di seguito la traduzione del testo che si trova appunto sotto la Meridiana :
DEO OFUMO MAXIMO MATER MISERICORDIAE DEI IRAE SEMPER VICTRIX
MADRE DI MISERICORDIA CHE PLACA SEMPRE L'IRA DI DIO REGNANTE IL SERENISSIMO FILIPPO RE DI SICANIA (Filippo II° RE di Spegna, di Sicilia etc. ESSENDO GLI ILLUSTRISSIMI ED ECCELLENTISSIMI DOMINUS ANTONIO ARAGONA E CARDONA DUCA DI MONTALTO NOSTRO PRINCIPE E LA MADRE DI LUI (nostra) PRINCIPESSA L'ILL.mo DON GIUSEPPE GIRINO VICARIO GENERALE DELLA DIOCESI DI MESSINA STANTE LA SEDE VACANTE, DON PIETRO MACALOSIA ARCIPRESBITERO - (Anno dalla nascita del Signore 1597 - X INDIZIONE)
mlp
Petralia Sottana ricorda Antonio Collisani
Presto la cittadinanza onoraria ai figli
Quest'anno ricorre il centenario dalla nascita di Antonio Collisani, una figura poliedrica e culturalmente rilevante, che ha segnato, grazie alle sue passioni e alle sue vocazioni, pagine importanti per la cultura delle Madonie e di Petralia.Antonio Collisani nacque a Petralia Sottana il 22 maggio 1911. La sua famiglia conta celebri personalità che negli anni hanno dimostrato un profondo legame con la storia e la cultura petralese. La Giunta Comunale di Petralia Sottana ha chiesto al Consiglio Comunale, che ha approvato all'unanimità, di conferire ad Amalia e Giuseppe Collisani la cittadinanza onoraria di Petralia Sottana annoverandoli tra propri concittadini illustri. Nel 2003 il Consiglio Comunale di Petralia Sottana istituisce il Museo Civico "Antonio Collisani", avviando la strutturazione di quella che oggi rappresenta un'istituzione culturale di grande pregio per le Madonie. Contemporaneamente, con l'intestazione ad Antonio Collisani viene riconosciuto il giusto tributo a una persona che ha speso il suo slancio culturale per l'arte, la storia e le tradizioni popolari di Petralia Sottana. Grazie alla generosità e alla sensibilità dei figli di Antonio Collisani, Amalia e Giuseppe, il museo civico di Petralia Sottana di pregia dell'onore di ospitare la collezione del loro amato padre. Un gesto di magnanimità e d'amore per Petralia, rendendo fruibile la collezione archeologica del padre, offrendo loro la possibilità di continuare ad intrecciare il percorso umano e culturale della famiglia Collisani con le proprie origini. Un gesto che corona il sogno del loro padre che aveva più volte espresso il desiderio di veder costituito un Antiquarium a Petralia che offrisse alla cittadinanza la possibilità di godere della bellezza della Grotta del Vecchiuzzo con i suoi ritrovamenti. Con l'allestimento nel 2008 della Collezione Collisani, offerta dai figli Amalia e Giuseppe, il sognato Antiquarium si è trasformato in uno dei musei archeologici più importanti di Sicilia, arricchendo Petralia Sottana di un importante punto di riferimento e crescita culturale. Un gesto carico di emozioni e legami affettivi, poiché la Collezione, prima di essere presentata nelle sale del Museo, componeva il quadro della quotidianità di casa Collisani, costituendo la rappresentazione visiva e tangibile del loro padre e delle sue passioni. Il nome di un Giuseppe Collesano figura nell'iscrizione del 1671 che sovrasta l'ingresso laterale della chiesa madre tra i giurati che si adoperarono per la costruzione del sacro tempio, mentre un Giacomo Collesano lo troviamo in un atto notarile del 1728 come tesoriere per la fabbrica del prospetto della stessa chiesa.Francesco Tropea nei sui scritti custoditi nell'archivio storico della Pro Petralia, ci ricorda che del padre di Antonio Collisani, Giuseppe " è stata l'idea geniale di aver tratto dall'oblio, nel 1935 l'antico Ballo Pantomima della Cordella".
M.L.P.
Quest'anno ricorre il centenario dalla nascita di Antonio Collisani, una figura poliedrica e culturalmente rilevante, che ha segnato, grazie alle sue passioni e alle sue vocazioni, pagine importanti per la cultura delle Madonie e di Petralia.Antonio Collisani nacque a Petralia Sottana il 22 maggio 1911. La sua famiglia conta celebri personalità che negli anni hanno dimostrato un profondo legame con la storia e la cultura petralese. La Giunta Comunale di Petralia Sottana ha chiesto al Consiglio Comunale, che ha approvato all'unanimità, di conferire ad Amalia e Giuseppe Collisani la cittadinanza onoraria di Petralia Sottana annoverandoli tra propri concittadini illustri. Nel 2003 il Consiglio Comunale di Petralia Sottana istituisce il Museo Civico "Antonio Collisani", avviando la strutturazione di quella che oggi rappresenta un'istituzione culturale di grande pregio per le Madonie. Contemporaneamente, con l'intestazione ad Antonio Collisani viene riconosciuto il giusto tributo a una persona che ha speso il suo slancio culturale per l'arte, la storia e le tradizioni popolari di Petralia Sottana. Grazie alla generosità e alla sensibilità dei figli di Antonio Collisani, Amalia e Giuseppe, il museo civico di Petralia Sottana di pregia dell'onore di ospitare la collezione del loro amato padre. Un gesto di magnanimità e d'amore per Petralia, rendendo fruibile la collezione archeologica del padre, offrendo loro la possibilità di continuare ad intrecciare il percorso umano e culturale della famiglia Collisani con le proprie origini. Un gesto che corona il sogno del loro padre che aveva più volte espresso il desiderio di veder costituito un Antiquarium a Petralia che offrisse alla cittadinanza la possibilità di godere della bellezza della Grotta del Vecchiuzzo con i suoi ritrovamenti. Con l'allestimento nel 2008 della Collezione Collisani, offerta dai figli Amalia e Giuseppe, il sognato Antiquarium si è trasformato in uno dei musei archeologici più importanti di Sicilia, arricchendo Petralia Sottana di un importante punto di riferimento e crescita culturale. Un gesto carico di emozioni e legami affettivi, poiché la Collezione, prima di essere presentata nelle sale del Museo, componeva il quadro della quotidianità di casa Collisani, costituendo la rappresentazione visiva e tangibile del loro padre e delle sue passioni. Il nome di un Giuseppe Collesano figura nell'iscrizione del 1671 che sovrasta l'ingresso laterale della chiesa madre tra i giurati che si adoperarono per la costruzione del sacro tempio, mentre un Giacomo Collesano lo troviamo in un atto notarile del 1728 come tesoriere per la fabbrica del prospetto della stessa chiesa.Francesco Tropea nei sui scritti custoditi nell'archivio storico della Pro Petralia, ci ricorda che del padre di Antonio Collisani, Giuseppe " è stata l'idea geniale di aver tratto dall'oblio, nel 1935 l'antico Ballo Pantomima della Cordella".
M.L.P.
L'officina di Posta a Petralia Sottana
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 7 del 8 maggio 2003
Il servizio postale esiste sin dall’antichità, anche se nel tempo si è piuttosto evoluto. Dai messaggeri al servizio esclusivo di un sovrano si era passati ai corrieri dei mercanti, e nel ‘500 la famiglia bergamasca dei Tasso della Torre si era trovata gestire una rete di collegamenti sempre più estesa in Europa, una vera e propria posta internazionale destinata a durare per quasi tre secoli. E’ certo che i Tasso con la loro rete non si spinsero fin sulle Madonie, eppure, anche con parecchie difficoltà l’organizzazione che consentiva le comunicazioni epistolari era abbastanza spedita ed efficiente. Fino al 1819 Palermo era sede della Direzione Generale e dell’Amministrazione Generale delle Poste in Sicilia, oltre a disporre di un porto che la collegava – via mare – con Napoli, Messina, Catania, Girgenti, e Trapani, era il punto di partenza di ben sette delle otto strade postali esistenti.
Il Real Decreto n. 1756 del 10 novembre 1819 promuoveva una riforma postale che avrebbe profondamente rivoluzionato i criteri con i quali sino ad allora era stato condotto il servizio delle poste in Sicilia.Assieme alle direzioni di Palermo e Messina, quest’ultima località di arrivo di due importanti “ cammini “: quelli, appunto da Palermo a Messina “ per la via delle marine “ e “ per la via delle montagne “, aveva istituito altre cinque direzioni con officine di posta, quelle di Catania, Caltanissetta, Girgenti, Trapani e Siracusa. Pochi mesi dopo, con Decreto n. 1896 del 25 febbraio 1820 fu creato un numero notevole di officine di posta distribuite lungo le strade postali che si irradiavano per l’isola, vennero così indicati i nomi di altre 98 località che sarebbero divenute sede di altrettante officine di posta. Ben presto, pero, ci si avvide che la quantità eccessiva di officine di posta influiva negativamente sulla “ celerità e l’esattezza del servizio postale “, quindi con il Decreto n. 2013 del 27 giugno 1820 furono soppresse ben 41 officine.
A Petralia Sottana l’officina di posta fu istituita con il Real Decreto del 25 febbraio 1820 e funzionò ininterrottamente sino all’inizio del 1840. A quella data, a seguito delle pressanti richieste esercitate dal comune di Petralia Soprana, l’officina fu declassata a sede di Cancelleria comunale postale e a Soprana fu istituita l’0fficina, a partire dal marzo del 1840. Tale officina, come quella che era stata in funzione a Sottana, faceva parte del “ cammino da Palermo a Messina per la via delle montagne “ e fu operante anche negli anni 1859/60. La Cancelleria comunale di Petralia Sottana si occupò dell’inoltro della corrispondenza in partenza e della distribuzione di quella in arrivo dal 1840 al dicembre del 1858 ed oltre, dipendendo sempre dall’officina di Soprana.
Nel 1858, dopo replicate istanze prodotte da don Francesco Porriveccchi, sindaco di Petralia Sottana, il Marchese di San Giacinto, amministratore generale delle poste in Sicilia, disponeva l’apertura provvisoria di un‘officina di posta a Petralia Sottana con assegno di 18 ducati annuali sulle spese di seconda classe dell’amministrazione centrale. L’officina cominciò a svolgere le sue regolari funzioni a partire dal 1 marzo 1859, due mesi dopo che cominciarono ad avere corso i francobolli con l’effige di Ferdinando II. In data 8 gennaio 1859 era stato nominato ufficiale provvisorio D.n Pietro Rossi,al quale furono fatti pervenire oltre al materiale occorrente per l’espletamento delle sue funzioni tre suggelli, indicanti Assicurata, Real Servizio, e Petralia Sottana, del costo di ducati 3 e grana 60. Probabilmente per assuefazione alle passate consuetudini, l’officina di Petralia non ricevette il quarto suggello: l’annullatore a ferro di cavallo, che era stato fornito in dotazione a tutte la altre officine al momento dell’adozione del francobollo ( in Sicilia 1° gennaio 1859 ). Per questo motivo l’ufficiale postale Pietro Rossi ebbe cura di vergare a penna sul margine dei francobolli che opponeva, o che gli utenti opponevano sulle missive in partenza, la dicitura “ annullato “ o “ annullati “ ( a seconda che si trattasse di uno o più francobolli ), badando accuratamente che la scritta non colpisse l’effige del sovrano ed adoperando inchiostro nero. Sulla soprascritta veniva regolarmente impresso il bollo ovale nominativo Petralia Sottana inchiostrato in azzurro verdastro, sbiadito inizialmente ( sino a maggio/giugno 59 ), in nero successivamente. Talora, a convalida dell’annullamento a penna apposto in partenza, il “ ferro di cavallo “ fu impresso sui francobolli in arrivo a Palermo. Nell’ultimo periodo d’uso dei francobolli borbonici, e presumibilmente a partire dal mese di marzo 1860, la dicitura a penna “ annullato “ risulta essere vergata con grafia differente da quella del Rossi, usando generalmente inchiostro azzurro chiaro e solo qualche volta nero e non avendo cura di rispettare l’effige reale, anzi – quasi espressione di una avversione politica nei confronti del sovrano ormai defunto da circa un anno e, in ogni caso della dinastia borbonica – facendo ricadere l’annullamento sul volto del re. Da ciò si evince che l’ufficiale postale succeduto al Rossi o che temporaneamente andò a sostituirlo, nutriva sentimenti liberali e li dimostrava nell’applicazione delle proprie funzioni.
Francesco Minneci
Il servizio postale esiste sin dall’antichità, anche se nel tempo si è piuttosto evoluto. Dai messaggeri al servizio esclusivo di un sovrano si era passati ai corrieri dei mercanti, e nel ‘500 la famiglia bergamasca dei Tasso della Torre si era trovata gestire una rete di collegamenti sempre più estesa in Europa, una vera e propria posta internazionale destinata a durare per quasi tre secoli. E’ certo che i Tasso con la loro rete non si spinsero fin sulle Madonie, eppure, anche con parecchie difficoltà l’organizzazione che consentiva le comunicazioni epistolari era abbastanza spedita ed efficiente. Fino al 1819 Palermo era sede della Direzione Generale e dell’Amministrazione Generale delle Poste in Sicilia, oltre a disporre di un porto che la collegava – via mare – con Napoli, Messina, Catania, Girgenti, e Trapani, era il punto di partenza di ben sette delle otto strade postali esistenti.
Il Real Decreto n. 1756 del 10 novembre 1819 promuoveva una riforma postale che avrebbe profondamente rivoluzionato i criteri con i quali sino ad allora era stato condotto il servizio delle poste in Sicilia.Assieme alle direzioni di Palermo e Messina, quest’ultima località di arrivo di due importanti “ cammini “: quelli, appunto da Palermo a Messina “ per la via delle marine “ e “ per la via delle montagne “, aveva istituito altre cinque direzioni con officine di posta, quelle di Catania, Caltanissetta, Girgenti, Trapani e Siracusa. Pochi mesi dopo, con Decreto n. 1896 del 25 febbraio 1820 fu creato un numero notevole di officine di posta distribuite lungo le strade postali che si irradiavano per l’isola, vennero così indicati i nomi di altre 98 località che sarebbero divenute sede di altrettante officine di posta. Ben presto, pero, ci si avvide che la quantità eccessiva di officine di posta influiva negativamente sulla “ celerità e l’esattezza del servizio postale “, quindi con il Decreto n. 2013 del 27 giugno 1820 furono soppresse ben 41 officine.
A Petralia Sottana l’officina di posta fu istituita con il Real Decreto del 25 febbraio 1820 e funzionò ininterrottamente sino all’inizio del 1840. A quella data, a seguito delle pressanti richieste esercitate dal comune di Petralia Soprana, l’officina fu declassata a sede di Cancelleria comunale postale e a Soprana fu istituita l’0fficina, a partire dal marzo del 1840. Tale officina, come quella che era stata in funzione a Sottana, faceva parte del “ cammino da Palermo a Messina per la via delle montagne “ e fu operante anche negli anni 1859/60. La Cancelleria comunale di Petralia Sottana si occupò dell’inoltro della corrispondenza in partenza e della distribuzione di quella in arrivo dal 1840 al dicembre del 1858 ed oltre, dipendendo sempre dall’officina di Soprana.
Nel 1858, dopo replicate istanze prodotte da don Francesco Porriveccchi, sindaco di Petralia Sottana, il Marchese di San Giacinto, amministratore generale delle poste in Sicilia, disponeva l’apertura provvisoria di un‘officina di posta a Petralia Sottana con assegno di 18 ducati annuali sulle spese di seconda classe dell’amministrazione centrale. L’officina cominciò a svolgere le sue regolari funzioni a partire dal 1 marzo 1859, due mesi dopo che cominciarono ad avere corso i francobolli con l’effige di Ferdinando II. In data 8 gennaio 1859 era stato nominato ufficiale provvisorio D.n Pietro Rossi,al quale furono fatti pervenire oltre al materiale occorrente per l’espletamento delle sue funzioni tre suggelli, indicanti Assicurata, Real Servizio, e Petralia Sottana, del costo di ducati 3 e grana 60. Probabilmente per assuefazione alle passate consuetudini, l’officina di Petralia non ricevette il quarto suggello: l’annullatore a ferro di cavallo, che era stato fornito in dotazione a tutte la altre officine al momento dell’adozione del francobollo ( in Sicilia 1° gennaio 1859 ). Per questo motivo l’ufficiale postale Pietro Rossi ebbe cura di vergare a penna sul margine dei francobolli che opponeva, o che gli utenti opponevano sulle missive in partenza, la dicitura “ annullato “ o “ annullati “ ( a seconda che si trattasse di uno o più francobolli ), badando accuratamente che la scritta non colpisse l’effige del sovrano ed adoperando inchiostro nero. Sulla soprascritta veniva regolarmente impresso il bollo ovale nominativo Petralia Sottana inchiostrato in azzurro verdastro, sbiadito inizialmente ( sino a maggio/giugno 59 ), in nero successivamente. Talora, a convalida dell’annullamento a penna apposto in partenza, il “ ferro di cavallo “ fu impresso sui francobolli in arrivo a Palermo. Nell’ultimo periodo d’uso dei francobolli borbonici, e presumibilmente a partire dal mese di marzo 1860, la dicitura a penna “ annullato “ risulta essere vergata con grafia differente da quella del Rossi, usando generalmente inchiostro azzurro chiaro e solo qualche volta nero e non avendo cura di rispettare l’effige reale, anzi – quasi espressione di una avversione politica nei confronti del sovrano ormai defunto da circa un anno e, in ogni caso della dinastia borbonica – facendo ricadere l’annullamento sul volto del re. Da ciò si evince che l’ufficiale postale succeduto al Rossi o che temporaneamente andò a sostituirlo, nutriva sentimenti liberali e li dimostrava nell’applicazione delle proprie funzioni.
Francesco Minneci
Petralia e Garibaldi
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 5 del 15 marzo 2003
La storia tra ricerca di identità e aspirazione al cosmopolitismo
Spesso lo studio della storia rivoluziona il nostro modo di pensare e ci riserva delle sorprese: anche il territorio madonita, così isolato, così arroccato tra le montagne, così nostro, è stato toccato dall’epopea garibaldina. Generalmente con difficoltà riusciamo a comprendere che prima di noi persone in carne e ossa hanno vissuto nei nostri luoghi. La storia, che di solito ci racconta fatti e personaggi troppo lontani da noi, quasi irreali,questa volta ci ha sorpreso e appassionato facendoci comprendere che anche i nostri sono luoghi della storia.Ma veniamo ai fatti di quel lontano 1860: la “fame di terre” e le tristi e miserevoli condizioni delle plebi dell’Isola provocavano un clima teso e pronto ad esplodere; la scintilla fu lo sbarco dei Mille . Già il 29 Aprile del 1860, a Petralia Sottana scoppiò una rivolta guidata da contadini e braccianti che scesero per le vie del paese inneggiando alla rivoluzione. Si diressero verso le residenze dei notabili che detenevano il potere locale e ne uccisero tre. Seguì una feroce repressione : alcuni rivoltosi vennero uccisi , altri arrestati e tradotti nelle carceri palermitane. Anche a Gangi il 5 Maggio del 1860 una banda di “facinorosi” issò in piazza una bandiera tricolore che, rimossa dalle autorità, venne sostituita l’indomani da altri sei tricolori.Il 7 Maggio a Castelbuono i contadini occuparono i mulini impedendone il funzionamento pochi giorni prima che Garibaldi sbarcasse in Sicilia provocando sollevazioni in tutta l’Isola. Dopo lo sbarco il 2 Giugno del 1860 a Polizzi scoppiò un’insurrezione che fece 11 morti tra i notabili. Il tentativo di interpretare questi avvenimenti come un episodio patriottico non è stato accolto dagli storici per il fatto che i sobillatori della rivolta erano nobili e agirono probabilmente per motivi di supremazia personale; il popolo tuttavia fu pronto ad insorgere. Anche a Bompietro la sera del 25 Giugno si scatenò una rivolta che fece due morti. Negli stessi giorni i contadini di Caltavuturo decisero di occupare le terre del Duca di Ferrandina e contemporaneamente un po’ in tutta la Sicilia le plebi si mossero per fare applicare il decreto del 16 Maggio firmato da Garibaldi a Salemi che prometteva ai contadini combattenti e ai più poveri la distribuzione delle terre dei demani comunali. Un’altra testimonianza del coinvolgimento di Petralia Sottana nei fatti del 1860 è la lettera inviata dal garibaldino petralese Giuseppe Bellina ad Antonio Collesani in cui racconta di un incontro con Garibaldi al quale il Bellina confermava la disponibilità della popolazione petralese a seguire il dittatore nella sua lotta di liberazione della Sicilia dai Borbone e gli comunicava che un gruppo di giovani petralesi si era mosso da Petralia per unirsi ai garibaldini. Un ultimo documento conservato nell’archivio della biblioteca del Comune di Petralia Soprana ci dà testimonianza di una raccolta di fondi per erigere una statua in onore di Garibaldi. Studiando questi fatti che ebbero come teatro i nostri paesi abbiamo compreso l’importanza della storia locale. La storia locale diventa viva e vera proprio perché viene ricostruita sui documenti che possono essere ricercati ed analizzati direttamente da noi studenti. Queste ricostruzioni storiche hanno il merito di farci prendere coscienza della nostra identità culturale, delle nostre origini, delle nostre peculiarità.Inoltre la storia locale favorisce lo sviluppo di prospettive economiche nei nostri territori così poveri di risorse. La nascita di parchi storici e letterari ci consentirà di tornare al nostro passato, di prendere coscienza della nostra identità culturale e di creare opportunità economiche attraverso la nascita di itinerari turistici storici ed artistici. La riscoperta della propria identità culturale non esclude la coscienza dell’unità nazionale. I valori che ci differenziano culturalmente come Siciliani si sposano con quelli che ci uniscono e ci fanno sentire Italiani: la lingua, i costumi, la letteratura, l’arte, la storia comune. E proprio nella convivenza tra identità e globalità potrebbe risiedere una risposta ai problemi della globalizzazione. Certamente l’esaltazione dei valori nazionali non deve sfociare nel nazionalismo, come ci insegna la storia contemporanea.Noi ,per parte nostra, ci sentiamo Siciliane, Italiane, ma soprattutto cittadine di quell’Europa che sta ancora vivendo un processo di unificazione, realizzata forse dal punto di vista economico, ancora lontana dal punto di vista politico. A questo punto ci risuonano nelle orecchie le parole dell’antico filosofo Seneca il quale parlando di uguaglianza tra gli uomini raccomandava loro di sentirsi cittadini del mondo, indicando nel cosmopolitismo la via per realizzare l’equilibrio universale. Le nostre riflessioni sul valore dell’unità nazionale hanno come sfondo le polemiche sulla devolution che da un lato ci spaventa come Meridionali, dall’altro ci fa sperare in una politica più vicina ai bisogni del territorio. Nonostante le polemiche e i revisionismi il Risorgimento rimane un momento della storia che ci unisce e ci rende orgogliosi di essere Italiani.
V A Istituto Magistrale Statale Pietro Domina
La storia tra ricerca di identità e aspirazione al cosmopolitismo
Spesso lo studio della storia rivoluziona il nostro modo di pensare e ci riserva delle sorprese: anche il territorio madonita, così isolato, così arroccato tra le montagne, così nostro, è stato toccato dall’epopea garibaldina. Generalmente con difficoltà riusciamo a comprendere che prima di noi persone in carne e ossa hanno vissuto nei nostri luoghi. La storia, che di solito ci racconta fatti e personaggi troppo lontani da noi, quasi irreali,questa volta ci ha sorpreso e appassionato facendoci comprendere che anche i nostri sono luoghi della storia.Ma veniamo ai fatti di quel lontano 1860: la “fame di terre” e le tristi e miserevoli condizioni delle plebi dell’Isola provocavano un clima teso e pronto ad esplodere; la scintilla fu lo sbarco dei Mille . Già il 29 Aprile del 1860, a Petralia Sottana scoppiò una rivolta guidata da contadini e braccianti che scesero per le vie del paese inneggiando alla rivoluzione. Si diressero verso le residenze dei notabili che detenevano il potere locale e ne uccisero tre. Seguì una feroce repressione : alcuni rivoltosi vennero uccisi , altri arrestati e tradotti nelle carceri palermitane. Anche a Gangi il 5 Maggio del 1860 una banda di “facinorosi” issò in piazza una bandiera tricolore che, rimossa dalle autorità, venne sostituita l’indomani da altri sei tricolori.Il 7 Maggio a Castelbuono i contadini occuparono i mulini impedendone il funzionamento pochi giorni prima che Garibaldi sbarcasse in Sicilia provocando sollevazioni in tutta l’Isola. Dopo lo sbarco il 2 Giugno del 1860 a Polizzi scoppiò un’insurrezione che fece 11 morti tra i notabili. Il tentativo di interpretare questi avvenimenti come un episodio patriottico non è stato accolto dagli storici per il fatto che i sobillatori della rivolta erano nobili e agirono probabilmente per motivi di supremazia personale; il popolo tuttavia fu pronto ad insorgere. Anche a Bompietro la sera del 25 Giugno si scatenò una rivolta che fece due morti. Negli stessi giorni i contadini di Caltavuturo decisero di occupare le terre del Duca di Ferrandina e contemporaneamente un po’ in tutta la Sicilia le plebi si mossero per fare applicare il decreto del 16 Maggio firmato da Garibaldi a Salemi che prometteva ai contadini combattenti e ai più poveri la distribuzione delle terre dei demani comunali. Un’altra testimonianza del coinvolgimento di Petralia Sottana nei fatti del 1860 è la lettera inviata dal garibaldino petralese Giuseppe Bellina ad Antonio Collesani in cui racconta di un incontro con Garibaldi al quale il Bellina confermava la disponibilità della popolazione petralese a seguire il dittatore nella sua lotta di liberazione della Sicilia dai Borbone e gli comunicava che un gruppo di giovani petralesi si era mosso da Petralia per unirsi ai garibaldini. Un ultimo documento conservato nell’archivio della biblioteca del Comune di Petralia Soprana ci dà testimonianza di una raccolta di fondi per erigere una statua in onore di Garibaldi. Studiando questi fatti che ebbero come teatro i nostri paesi abbiamo compreso l’importanza della storia locale. La storia locale diventa viva e vera proprio perché viene ricostruita sui documenti che possono essere ricercati ed analizzati direttamente da noi studenti. Queste ricostruzioni storiche hanno il merito di farci prendere coscienza della nostra identità culturale, delle nostre origini, delle nostre peculiarità.Inoltre la storia locale favorisce lo sviluppo di prospettive economiche nei nostri territori così poveri di risorse. La nascita di parchi storici e letterari ci consentirà di tornare al nostro passato, di prendere coscienza della nostra identità culturale e di creare opportunità economiche attraverso la nascita di itinerari turistici storici ed artistici. La riscoperta della propria identità culturale non esclude la coscienza dell’unità nazionale. I valori che ci differenziano culturalmente come Siciliani si sposano con quelli che ci uniscono e ci fanno sentire Italiani: la lingua, i costumi, la letteratura, l’arte, la storia comune. E proprio nella convivenza tra identità e globalità potrebbe risiedere una risposta ai problemi della globalizzazione. Certamente l’esaltazione dei valori nazionali non deve sfociare nel nazionalismo, come ci insegna la storia contemporanea.Noi ,per parte nostra, ci sentiamo Siciliane, Italiane, ma soprattutto cittadine di quell’Europa che sta ancora vivendo un processo di unificazione, realizzata forse dal punto di vista economico, ancora lontana dal punto di vista politico. A questo punto ci risuonano nelle orecchie le parole dell’antico filosofo Seneca il quale parlando di uguaglianza tra gli uomini raccomandava loro di sentirsi cittadini del mondo, indicando nel cosmopolitismo la via per realizzare l’equilibrio universale. Le nostre riflessioni sul valore dell’unità nazionale hanno come sfondo le polemiche sulla devolution che da un lato ci spaventa come Meridionali, dall’altro ci fa sperare in una politica più vicina ai bisogni del territorio. Nonostante le polemiche e i revisionismi il Risorgimento rimane un momento della storia che ci unisce e ci rende orgogliosi di essere Italiani.
V A Istituto Magistrale Statale Pietro Domina
Dalla Consolare alla strada statale 120 tra polemiche e speranze
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 5 del 15 marzo 2003
Leggendo gli scritti di Giuseppe Pitrè, che ci ha lasciato preziose testimonianze sugli usi, i costumi, le tradizioni del popolo siciliano, apprendiamo molte notizie sulla realizzazione della odierna strada statale che partendo da Termini Imerese attraversa tutta la Sicilia, collegando i paesini dell’interno fino a giungere alla costa orientale al bivio di Fiumefreddo.
Per la realizzazione di questa importante arteria stradale sono occorsi più di cento anni perché, come si sa, in Sicilia abbiamo tempi tutti nostri.
Prima della esistenza della strada, intraprendere un viaggio per andare a Palermo o altrove era una impresa difficilissima.
Innanzitutto si cominciava dalla ricerca dei compagni di viaggio che dovevano essere fidati, armati e in buon numero, poi si provvedeva a reperire i viveri necessari, i muli e una buona guida.
Il posto di riunione, ove i partenti si recavano di buon ora, era lo spiazzo di San Rocco dove oggi sorge l’ex ospedale. Qui prima della partenza si invocava pietosamente San Giuliano con una antica giaculatoria che così recita:
San Giulianu ‘nta l’autu munti,
guarda li passi e poi li cunti.
Tu chi guardasti l’acqua e la via,
guarda ora a mia e la me cumpagnia.
La carovana, composta dai muli, dai viandanti e dal mulattiere iniziava il lungo cammino.
I pericoli erano sempre dietro l’angolo tant’è che erano in molti a fare testamento prima della partenza: i banditi, infatti, infestavano le campagne siciliane e vi erano luoghi da attraversare che sembravano fatti apposta perché i briganti tendessero agguati e ruberie. Più sicuro era viaggiare a fianco di qualche signore che aveva sempre con sé una scorta di campieri ben armata.
La velocità del viaggio era molto bassa pertanto da Petralia per raggiungere Palermo occorrevano due giorni e mezzo attraverso ripide trazzere che passavano da Boageri, Passo l’Abate, Calcarelli e Ponzo per raggiungere Polizzi poi per Firrione, Santa Venera e Scillato e valicato il fiume si raggiungeva Cerda dove si pernottava in qualche fondaco del paese. Da qui a Termini e poi Palermo.
Le cose durarono così fino al 1825 quando era allora sindaco di Petralia il barone don Vincenzo Carapezza, che, saputo che il governo borbonico, aveva stanziato dei fondi per la costruzione di nuove strade in Sicilia, cercò di interferire affinché venisse costruita una strada per collegare Petralia a Termini. Così il governo borbonico affidò il progetto all’ing. Orioles. La strada partendo da Termini sarebbe dovuta passare da Cerda, salire verso Caltavuturo, proseguire verso Polizzi inoltrarsi a Calcarelli e attraverso Gipsy raggiungere Rocca delle Balate arrivare nella contrada Sant’Elia toccare contrada Carbonara e infine raggiungere Piazza del Carmine per proseguire per Petralia Soprana. Ma questo progetto non si realizzò mai e le carovane partirono sempre da San Rocco recitando la solita preghiera a San Giuliano.
Soltanto nel 1857 l’ing. Pietro Palermo e l’ing. Vito Catoccio, presentarono un nuovo progetto che modificava quello precedente. Infatti la strada doveva toccare Castellana attraversare l’Imera in contrada Ponte ed entrare in paese attraverso il piano di Santa Croce (nei pressi della Chiesa) e quindi proseguire per Madonnuzza. Ma anche questo progetto che era stato approvato non si realizzò sia per la dura opposizione di Petralia Soprana che restava tagliata fuori, ma soprattutto per i noti fatti del 1860: lo sbarco di Garibaldi e la liberazione della Sicilia.
Il nuovo governo italiano presentò un altro progetto questa volta dell’ing. Fiorio che sosteneva che la strada non doveva passare dai centri abitati ma invece i comuni dovevano costruire delle strade di allacciamento. Cosicché nei riguardi di Petralia, la strada sarebbe passata da contrada Ponte raggiungendo Madonnuzza, seguendo il percorso della nuova strada che è stata di recente costruita. Ma un nostro influente compaesano, don Luigi Carapezza, consigliere provinciale, per evitare l’isolamento che avrebbe colpito il nostro paese, se si fosse realizzata questa strada, partì immediatamente per la capitale d’Italia, che era allora Firenze, per interferire presso il Ministro dei lavori pubblici.
Il Ministero ordinò la revisione del progetto Fiorio e finalmente nel 1875 si costruì l’attuale strada rotabile chiamata prima Consolare, poi Nazionale Termini-Taormina, poi dell’Etna e Madonie e infine Strada statale 120.
Il nostro Corso Paolo Agliata, la cui costruzione si ultimava in quello stesso anno su progetto dell’ing. Severino, venne subito raccordato con la Consolare mediante il tratto che oggi è intitolato al Principe di Piemonte.
La realizzazione della Consolare permise l’organizzazione di un servizio di diligenze che raggiungevano il capoluogo in sole otto ore di viaggio e garantivano una maggiore sicurezza dalle scorribande dei briganti e una maggiore comodità. Il progresso era arrivato anche a Petralia e sembrava che in fatto di viaggi si era raggiunta l’ultima meta, ma una nuova rivoluzione era alle porte e modificherà le abitudini, i comportamenti, l’economia dei paesi madoniti e non solo: l’invenzione dell’automobile nel 1908.
Una strada può fare la fortuna o la rovina di un centro. Infatti oggi stiamo assistendo ad un rapido sviluppo della vicina Madonnuzza, crocevia obbligatorio di tutto il traffico che si svolge sulle Madonie. Più di cento anni fa don Luigi Carapezza, con molta sagacia, si battè affinché la strada passasse dal paese. Oggi, dopo corsi e ricorsi storici, quella strada ritenuta una minaccia per l’economia di Petralia è stata costruita davvero. E se don Luigi Carapezza aveva ragione?
Damiano Geraci
Leggendo gli scritti di Giuseppe Pitrè, che ci ha lasciato preziose testimonianze sugli usi, i costumi, le tradizioni del popolo siciliano, apprendiamo molte notizie sulla realizzazione della odierna strada statale che partendo da Termini Imerese attraversa tutta la Sicilia, collegando i paesini dell’interno fino a giungere alla costa orientale al bivio di Fiumefreddo.
Per la realizzazione di questa importante arteria stradale sono occorsi più di cento anni perché, come si sa, in Sicilia abbiamo tempi tutti nostri.
Prima della esistenza della strada, intraprendere un viaggio per andare a Palermo o altrove era una impresa difficilissima.
Innanzitutto si cominciava dalla ricerca dei compagni di viaggio che dovevano essere fidati, armati e in buon numero, poi si provvedeva a reperire i viveri necessari, i muli e una buona guida.
Il posto di riunione, ove i partenti si recavano di buon ora, era lo spiazzo di San Rocco dove oggi sorge l’ex ospedale. Qui prima della partenza si invocava pietosamente San Giuliano con una antica giaculatoria che così recita:
San Giulianu ‘nta l’autu munti,
guarda li passi e poi li cunti.
Tu chi guardasti l’acqua e la via,
guarda ora a mia e la me cumpagnia.
La carovana, composta dai muli, dai viandanti e dal mulattiere iniziava il lungo cammino.
I pericoli erano sempre dietro l’angolo tant’è che erano in molti a fare testamento prima della partenza: i banditi, infatti, infestavano le campagne siciliane e vi erano luoghi da attraversare che sembravano fatti apposta perché i briganti tendessero agguati e ruberie. Più sicuro era viaggiare a fianco di qualche signore che aveva sempre con sé una scorta di campieri ben armata.
La velocità del viaggio era molto bassa pertanto da Petralia per raggiungere Palermo occorrevano due giorni e mezzo attraverso ripide trazzere che passavano da Boageri, Passo l’Abate, Calcarelli e Ponzo per raggiungere Polizzi poi per Firrione, Santa Venera e Scillato e valicato il fiume si raggiungeva Cerda dove si pernottava in qualche fondaco del paese. Da qui a Termini e poi Palermo.
Le cose durarono così fino al 1825 quando era allora sindaco di Petralia il barone don Vincenzo Carapezza, che, saputo che il governo borbonico, aveva stanziato dei fondi per la costruzione di nuove strade in Sicilia, cercò di interferire affinché venisse costruita una strada per collegare Petralia a Termini. Così il governo borbonico affidò il progetto all’ing. Orioles. La strada partendo da Termini sarebbe dovuta passare da Cerda, salire verso Caltavuturo, proseguire verso Polizzi inoltrarsi a Calcarelli e attraverso Gipsy raggiungere Rocca delle Balate arrivare nella contrada Sant’Elia toccare contrada Carbonara e infine raggiungere Piazza del Carmine per proseguire per Petralia Soprana. Ma questo progetto non si realizzò mai e le carovane partirono sempre da San Rocco recitando la solita preghiera a San Giuliano.
Soltanto nel 1857 l’ing. Pietro Palermo e l’ing. Vito Catoccio, presentarono un nuovo progetto che modificava quello precedente. Infatti la strada doveva toccare Castellana attraversare l’Imera in contrada Ponte ed entrare in paese attraverso il piano di Santa Croce (nei pressi della Chiesa) e quindi proseguire per Madonnuzza. Ma anche questo progetto che era stato approvato non si realizzò sia per la dura opposizione di Petralia Soprana che restava tagliata fuori, ma soprattutto per i noti fatti del 1860: lo sbarco di Garibaldi e la liberazione della Sicilia.
Il nuovo governo italiano presentò un altro progetto questa volta dell’ing. Fiorio che sosteneva che la strada non doveva passare dai centri abitati ma invece i comuni dovevano costruire delle strade di allacciamento. Cosicché nei riguardi di Petralia, la strada sarebbe passata da contrada Ponte raggiungendo Madonnuzza, seguendo il percorso della nuova strada che è stata di recente costruita. Ma un nostro influente compaesano, don Luigi Carapezza, consigliere provinciale, per evitare l’isolamento che avrebbe colpito il nostro paese, se si fosse realizzata questa strada, partì immediatamente per la capitale d’Italia, che era allora Firenze, per interferire presso il Ministro dei lavori pubblici.
Il Ministero ordinò la revisione del progetto Fiorio e finalmente nel 1875 si costruì l’attuale strada rotabile chiamata prima Consolare, poi Nazionale Termini-Taormina, poi dell’Etna e Madonie e infine Strada statale 120.
Il nostro Corso Paolo Agliata, la cui costruzione si ultimava in quello stesso anno su progetto dell’ing. Severino, venne subito raccordato con la Consolare mediante il tratto che oggi è intitolato al Principe di Piemonte.
La realizzazione della Consolare permise l’organizzazione di un servizio di diligenze che raggiungevano il capoluogo in sole otto ore di viaggio e garantivano una maggiore sicurezza dalle scorribande dei briganti e una maggiore comodità. Il progresso era arrivato anche a Petralia e sembrava che in fatto di viaggi si era raggiunta l’ultima meta, ma una nuova rivoluzione era alle porte e modificherà le abitudini, i comportamenti, l’economia dei paesi madoniti e non solo: l’invenzione dell’automobile nel 1908.
Una strada può fare la fortuna o la rovina di un centro. Infatti oggi stiamo assistendo ad un rapido sviluppo della vicina Madonnuzza, crocevia obbligatorio di tutto il traffico che si svolge sulle Madonie. Più di cento anni fa don Luigi Carapezza, con molta sagacia, si battè affinché la strada passasse dal paese. Oggi, dopo corsi e ricorsi storici, quella strada ritenuta una minaccia per l’economia di Petralia è stata costruita davvero. E se don Luigi Carapezza aveva ragione?
Damiano Geraci
Carretti e carrettieri
Dalla storia di uno strumento di lavoro, ai ricordi di un carrettiere petraliese
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 4 del 15 febbraio 2003
Il carretto siciliano ha svariati connotati culturali, il cui significato si è sfortunatamente perso nei tempi moderni quando il carro, divenuto quasi solo oggetto turistico, o usato in occasioni particolari, rischia l’estinzione.
Purtroppo nelle nostre zone già da tempo i carretti hanno ceduto il passo ai mezzi di trasporto a motore, e tanti non avendo avuto la fortuna di vederli prima, devono accontentarsi di ammirarli solo durante alcune manifestazioni folkcloristiche.E’ quindi evidente l’urgenza di fare conoscere una parte così affascinante della nostra cultura e tentare di salvare in extremis quest’arte ricca di tanto spessore antropologico. Il carretto siciliano cominciò ad esistere nella forma attuale solo verso la metà dell’800, e fino agli anni ’50, all’occorrenza veniva usato nei giorni festivi anche come mezzo di trasporto per gli spostamenti della famiglia. Esso era “personalizzato” anche nella scelta dei soggetti delle pitture, che molto spesso, riflettevano la personalità del carrettiere.
Il carretto è il risultato di varie fasi di lavorazione, ognuna delle quali richiede l’opera attenta di un diverso artigiano.Con l’ausilio di informazioni ricevute dal signor Saccaro, ex fabbro che lavorava in una bottega molto primitiva in corso dei Mille a Palermo, illustriamo queste fasi necessarie per la realizzazione di un carretto.
L’artigiano che costruisce il carro si chiama carradore, il quale deve dimostrare tutta la sua “maestria” durante la fase di cerchiatura delle ruote. Questa operazione di solito veniva fatta vicino al mare o a un fiume per permettere all’acqua di raffreddare il più velocemente possibile il cerchione di ferro che serve a proteggere le ruote. Il carrettiere stava seduto su una tavola di legno leggermente sollevata sul davanti, che si chiama “ tavulazzu” perché assomiglia al pezzo di legno su cui dormivano i carcerati. Lo scultore scolpisce alcune parti del carro fra cui il “pizzo” ( centro di asse collocato sotto il cassone ), la chiave che chiude il retro, le ruote e le stanghe. Il “pizzo” riveste un’importanza particolare perché lì viene raffigurata l’immagine del santo sotto la cui protezione si voleva porre il carretto e il suo carrettiere.Sembra strano che tanta attenzione venga rivolta ad una parte del carro che è piuttosto difficile da vedere, ma bisogna ricordare che la rottura dell’asse avrebbe messo in pericolo il carro che viaggiava su strade molto disagiate.Di solito nei carretti palermitani questo santo era San Giorgio a cavallo, proprio per la somiglianza che egli aveva con le figure cavalleresche dell’opera dei pupi, di gran moda in quell’epoca.Il fabbro forgia il particolarissimo fregio in ferro battuto che è detto "rabiscu” (arabesco) e che fa parte della “ cascia i fusu “, l’elemento del carretto fra il cassone e l’asse.Il pittore o “pittacarrretti”, infine, dipinge ogni parte del carro. Normalmente “u mastru” dipingeva solo “i masciddara” (mascellari, cioè fiancate) lasciando il resto ai suoi apprendisti.Dato il grande successo riscosso dall'opera dei pupi nella seconda metà dell'ottocento in poi le fiancate del carretto, inizialmente dipinte con soggetti religiosi, cominciarono a rappresentare storie cavalleresche. Lapittura proteggeva il legno e metteva il carretto sotto la protezione divina (almeno finchè le pitture ebbero soggetto religioso). Un carretto dipinto soddisfaceva l'esigenza di status symbol del carrettiere, per il quale il carro era un qualcosa da mostrare con grande orgoglio. Inoltre le pitture avevano la funzione di cartellone pubblicitario per il carrettiere che doveva attrarre i clienti. Il pittore copia ilcontorno delle figure dei suoi modelli da stampe, libri, o altro, non inventa nulla, il plagio, considerato un fattore negativo nell’arte, è inevitabile, anzi auspicabile per i prodotti dell’arte popolare. Il pittore usa diversi tipi di pennelli, come lo “ scarpidduzzu ”, adatto a tracciare i ” priffili “ ( profili ) rossi, blu e verdi sulle ruote. I colori che sono ottenuti mischiando polveri colorate con olio di lino non sono abbastanza coprenti, ma “trasparenti”. Infine meritano una citazione a parte le boccole in bronzo che sono collocate nel centro delle ruote, e che accompagnavano con il loro suono, che doveva essere a “ sonu di campani”, il canto del carrettiere. Al signor Giuseppe Geraci, prima che passasse a miglior vita, e che svolse il lavoro di carrettiere dal 1946 fino agli anni sessanta, avevamo chiesto di parlarci di un mondo così affascinante e di quello che succedeva in passato a Petralia. Con un pizzico di nostalgia il signor Giuseppe ci aveva detto: il nostro paese non ha avuto artigiani capaci di costruire carretti, generalmente quelli in circolazione erano acquistati a Bagheria, anche quando era necessario “ firrari” cioè rimettere a posto il cerchio di ferro sulle ruote, eravamo costretti a recarci a Termini, o a Enna o a Campofelice perdendo due o tre giorni di lavoro. Non eravamo in tanti, dopo la seconda guerra, di carrettieri a Petralia se ne contavano appena una diecina, qualcuno poi, come il signor Giuseppe Cappuzzo era arrivato ad avere una autorimessa propria con ben quattro carretti e relativi impiegati.Ricordo quando un’ordinanza aveva reso obbligatorio il cappello antisole e i paraocchi per muli e cavalli e quando nelle sere invernali era necessario usare sul carro il lume a petrolio. Qualcuno addobbava i cavalli con i preziosi finimenti che producevano i “ vardiddara”, ma i nostri carri non erano “ pittati ”, erano solo semplici mezzi da lavoro con cui ci si guadagnava da vivere. I vari Calderaro, Macaluso, Martorana, Bellina, inteso “ sarduzza “, tra l’altro tra i primi ad avere un carretto a Petralia, li utilizzavano per il trasporto di ogni genere di merce da e per il nostro paese.Dopo il 1960 ho venduto il carretto a Girolamo Ferlino, meglio conosciuto come “ Pitrinu u carrittieri “ (nella foto), questi lo utilizzo per il trasporto dei materiali edili fino agli anni ‘70 e con lui si chiuse a Petralia l’epoca dei carrettieri.
Francesco Minneci
Il carretto siciliano ha svariati connotati culturali, il cui significato si è sfortunatamente perso nei tempi moderni quando il carro, divenuto quasi solo oggetto turistico, o usato in occasioni particolari, rischia l’estinzione.
Purtroppo nelle nostre zone già da tempo i carretti hanno ceduto il passo ai mezzi di trasporto a motore, e tanti non avendo avuto la fortuna di vederli prima, devono accontentarsi di ammirarli solo durante alcune manifestazioni folkcloristiche.E’ quindi evidente l’urgenza di fare conoscere una parte così affascinante della nostra cultura e tentare di salvare in extremis quest’arte ricca di tanto spessore antropologico. Il carretto siciliano cominciò ad esistere nella forma attuale solo verso la metà dell’800, e fino agli anni ’50, all’occorrenza veniva usato nei giorni festivi anche come mezzo di trasporto per gli spostamenti della famiglia. Esso era “personalizzato” anche nella scelta dei soggetti delle pitture, che molto spesso, riflettevano la personalità del carrettiere.
Il carretto è il risultato di varie fasi di lavorazione, ognuna delle quali richiede l’opera attenta di un diverso artigiano.Con l’ausilio di informazioni ricevute dal signor Saccaro, ex fabbro che lavorava in una bottega molto primitiva in corso dei Mille a Palermo, illustriamo queste fasi necessarie per la realizzazione di un carretto.
L’artigiano che costruisce il carro si chiama carradore, il quale deve dimostrare tutta la sua “maestria” durante la fase di cerchiatura delle ruote. Questa operazione di solito veniva fatta vicino al mare o a un fiume per permettere all’acqua di raffreddare il più velocemente possibile il cerchione di ferro che serve a proteggere le ruote. Il carrettiere stava seduto su una tavola di legno leggermente sollevata sul davanti, che si chiama “ tavulazzu” perché assomiglia al pezzo di legno su cui dormivano i carcerati. Lo scultore scolpisce alcune parti del carro fra cui il “pizzo” ( centro di asse collocato sotto il cassone ), la chiave che chiude il retro, le ruote e le stanghe. Il “pizzo” riveste un’importanza particolare perché lì viene raffigurata l’immagine del santo sotto la cui protezione si voleva porre il carretto e il suo carrettiere.Sembra strano che tanta attenzione venga rivolta ad una parte del carro che è piuttosto difficile da vedere, ma bisogna ricordare che la rottura dell’asse avrebbe messo in pericolo il carro che viaggiava su strade molto disagiate.Di solito nei carretti palermitani questo santo era San Giorgio a cavallo, proprio per la somiglianza che egli aveva con le figure cavalleresche dell’opera dei pupi, di gran moda in quell’epoca.Il fabbro forgia il particolarissimo fregio in ferro battuto che è detto "rabiscu” (arabesco) e che fa parte della “ cascia i fusu “, l’elemento del carretto fra il cassone e l’asse.Il pittore o “pittacarrretti”, infine, dipinge ogni parte del carro. Normalmente “u mastru” dipingeva solo “i masciddara” (mascellari, cioè fiancate) lasciando il resto ai suoi apprendisti.Dato il grande successo riscosso dall'opera dei pupi nella seconda metà dell'ottocento in poi le fiancate del carretto, inizialmente dipinte con soggetti religiosi, cominciarono a rappresentare storie cavalleresche. Lapittura proteggeva il legno e metteva il carretto sotto la protezione divina (almeno finchè le pitture ebbero soggetto religioso). Un carretto dipinto soddisfaceva l'esigenza di status symbol del carrettiere, per il quale il carro era un qualcosa da mostrare con grande orgoglio. Inoltre le pitture avevano la funzione di cartellone pubblicitario per il carrettiere che doveva attrarre i clienti. Il pittore copia ilcontorno delle figure dei suoi modelli da stampe, libri, o altro, non inventa nulla, il plagio, considerato un fattore negativo nell’arte, è inevitabile, anzi auspicabile per i prodotti dell’arte popolare. Il pittore usa diversi tipi di pennelli, come lo “ scarpidduzzu ”, adatto a tracciare i ” priffili “ ( profili ) rossi, blu e verdi sulle ruote. I colori che sono ottenuti mischiando polveri colorate con olio di lino non sono abbastanza coprenti, ma “trasparenti”. Infine meritano una citazione a parte le boccole in bronzo che sono collocate nel centro delle ruote, e che accompagnavano con il loro suono, che doveva essere a “ sonu di campani”, il canto del carrettiere. Al signor Giuseppe Geraci, prima che passasse a miglior vita, e che svolse il lavoro di carrettiere dal 1946 fino agli anni sessanta, avevamo chiesto di parlarci di un mondo così affascinante e di quello che succedeva in passato a Petralia. Con un pizzico di nostalgia il signor Giuseppe ci aveva detto: il nostro paese non ha avuto artigiani capaci di costruire carretti, generalmente quelli in circolazione erano acquistati a Bagheria, anche quando era necessario “ firrari” cioè rimettere a posto il cerchio di ferro sulle ruote, eravamo costretti a recarci a Termini, o a Enna o a Campofelice perdendo due o tre giorni di lavoro. Non eravamo in tanti, dopo la seconda guerra, di carrettieri a Petralia se ne contavano appena una diecina, qualcuno poi, come il signor Giuseppe Cappuzzo era arrivato ad avere una autorimessa propria con ben quattro carretti e relativi impiegati.Ricordo quando un’ordinanza aveva reso obbligatorio il cappello antisole e i paraocchi per muli e cavalli e quando nelle sere invernali era necessario usare sul carro il lume a petrolio. Qualcuno addobbava i cavalli con i preziosi finimenti che producevano i “ vardiddara”, ma i nostri carri non erano “ pittati ”, erano solo semplici mezzi da lavoro con cui ci si guadagnava da vivere. I vari Calderaro, Macaluso, Martorana, Bellina, inteso “ sarduzza “, tra l’altro tra i primi ad avere un carretto a Petralia, li utilizzavano per il trasporto di ogni genere di merce da e per il nostro paese.Dopo il 1960 ho venduto il carretto a Girolamo Ferlino, meglio conosciuto come “ Pitrinu u carrittieri “ (nella foto), questi lo utilizzo per il trasporto dei materiali edili fino agli anni ‘70 e con lui si chiuse a Petralia l’epoca dei carrettieri.
Francesco Minneci
Gli archi di Piazza Duomo compiono 100 anni
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 3 del 18 gennaio 2003
La realizzazione degli “Archi” di piazza Duomo è sicuramente una delle opere più importanti realizzate a Petralia Sottana durante i lunghi anni della sua storia.
Il progetto si deve ad Emerico Carapezza ingegnere di origini Petraliesi ed è il risultato di un attento studio statico ed estetico effettuato sulla piazza preesistente, dove si affaccia il Duomo dedicato a Maria Assunta dominante parte della valle solcata dal fiume Imera meridionale.
L'ingegnere Carapezza riuscì a risolvere i problemi inerenti al cedimento del muro di sostegno della vecchia piazza, che ampliò notevolmente, inglobando al di sotto di essa le vecchie abitazioni che, essendo più basse, non alteravano l'aspetto estetico dai punti di vista più importanti.
L'esigenza della riparazione e dell'ampliamento della piazza Duomo, antistante la chiesa Madre dedicata a Maria Assunta, è evidenziata dalle delibere del 1874; dopo più di venti anni (1896) tale problema venne affrontato seriamente e il progetto fu affidato all'ingegnere Emerico Carapezza.
La relazione, presentata dall'ingegnere al Comune di Petralia Sottana (sullo stato di fatto della piazza) in data 5 agosto 1896, aveva rilevato la presenza di un cedimento del muro di sostegno a valle (consistente nella rotazione della verticale della metà superiore) con uno spostamento di circa 30 cm in avanti. Tale deformazione non era dovuta ad un cedimento delle fondazioni che poggiavano sulla roccia bensì, alla presenza al di sotto del basolato della piazza di un terrapieno di materiale scadente e mancante di opere di drenaggio; le infiltrazioni d'acqua dal basolato dopo le nevicate causavano un aumento di volume e di peso esercitando una notevole spinta contro il muro.
Il 14 novembre 1896 l'assessore cav. Vincenzo Figlia emanò l'ordinanza di sgombero delle case sottostanti la piazza Duomo, dato che gli abitanti non avevano lasciato libere le abitazioni.
Qualche mese dopo l'amministrazione comunale “ritenendo giusti i desideri della popolazione” di ampliare la piazza diede incarico all'ingegnere Carapezza di redigere un progetto di massima.
L'elaborato prevedeva un allargamento della piazza di 195 mq circa, attraverso la realizzazione di sette speroni e sei volte a botte. Il preventivo di spesa per tale progetto risultò di £. 22.000.
In data 9 aprile 1897 l'ingegnere Carapezza presentò il progetto con la relazione di accompagnamento e i calcoli di stabilità. Nel progetto esecutivo i previsti 195 mq di allargamento della piazza raggiunsero i 280 mq circa.
Le spese indicate nell'estimativo ammontavano a £.27.000 cosi ripartite: scavi e trasporti a rifiuto £. 170,12, muratura in fondazione £. 1.887,52, muratura in elevazione £.19.859,69, sistemazione del vecchio lastricato £ 2.708,17 , opere impreviste £ 2.374,50.
Tenuto conto che la costruzione dei sette speroni e delle sei volte a botte avrebbero danneggiato le abitazioni e le proprietà vicine, fu previsto un indennizzo ai proprietari. Gli indennizzi stabiliti dal progettista, su incarico dell'amministrazione comunale, furono cosi suddivisi: agli eredi Vaccarella £.3.000, a Cilibrasi Calogero £.150, a D'Argento Antonino £.25, a Gianforte Filippo £.40, a Purpi Antonio £.200, a Gaudio Giuseppa vedova Bellina £.460 per una somma totale di £.3.875. I proprietari delle abitazioni non subirono un esproprio totale ma parziale in quanto gli archi ebbero un'altezza superiore, lasciando gli edifici al di sotto.
Il capitolato d'appalto presentato il 31 ottobre 1897 specificava il tipo di lavori da effettuare, i materiali da utilizzare, la spesa e il sistema di aggiudicazione dell'appalto. In particolare per i materiali fu usato, il calcare bianco della cava di Fasanò.
Il sistema attuato per l'aggiudicazione dell'appalto fu la trattativa d'asta con il metodo della candela vergine, quindi con offerte a ribasso sull'ammontare dell'appalto; fu aggiudicato a Chiara Calogero fu Nicolò con il prezzo di £.18.222,87.
Durante l'esecuzione dei lavori affiorarono vari imprevisti che portarono ad un aumento dei lavori, con conseguente aumento delle spese.
Il computo estimativo venne rifatto dall'ingegnere Carapezza e la spesa prevista ammontò a £.31.740,67 per cui l'amministrazione comunale dovette far fronte all'imprevisto aumento.
Il risultato finale del progetto lo possiamo ammirare tutt'oggi, infatti, la Piazza Duomo di Petralia Sottana é stata realizzata sfruttando quel meraviglioso paesaggio offerto dalla valle dell'Imera meridionale e contemporaneamente il Duomo e gli “Archi” che la dominano da uno sperone del centro abitato.
Dopo l'accurato studio del progetto dell'ingegnere petraliese sugli Archi, (attualmente conservato nell'archivio storico comunale di Petralia Sottana cartella per archivi anno 1901-1903) da parte degli architetti Renato Valenza, Denis Vitellaro e Giovanni Zarbo, anche Emerico Carapezza è stato inserito nell'atlante degli Artisti Siciliani-Architettura, curato da Luigi Sarullo e aggiornato al 1993 da Maria Clara Ruggieri Tricoli, avendo così colmato un vuoto documentario dello stesso atlante.
Gli Archi compiono cento anni e dall'indagine effettuata sullo stato di fatto è emersa la presenza di degradi diffusi e di dissesti di piccole e quasi irrilevanti porzioni, di conseguenza l'intervento di conservazione nasce come logica indiscutibile.
Arch. Renato Valenza
La realizzazione degli “Archi” di piazza Duomo è sicuramente una delle opere più importanti realizzate a Petralia Sottana durante i lunghi anni della sua storia.
Il progetto si deve ad Emerico Carapezza ingegnere di origini Petraliesi ed è il risultato di un attento studio statico ed estetico effettuato sulla piazza preesistente, dove si affaccia il Duomo dedicato a Maria Assunta dominante parte della valle solcata dal fiume Imera meridionale.
L'ingegnere Carapezza riuscì a risolvere i problemi inerenti al cedimento del muro di sostegno della vecchia piazza, che ampliò notevolmente, inglobando al di sotto di essa le vecchie abitazioni che, essendo più basse, non alteravano l'aspetto estetico dai punti di vista più importanti.
L'esigenza della riparazione e dell'ampliamento della piazza Duomo, antistante la chiesa Madre dedicata a Maria Assunta, è evidenziata dalle delibere del 1874; dopo più di venti anni (1896) tale problema venne affrontato seriamente e il progetto fu affidato all'ingegnere Emerico Carapezza.
La relazione, presentata dall'ingegnere al Comune di Petralia Sottana (sullo stato di fatto della piazza) in data 5 agosto 1896, aveva rilevato la presenza di un cedimento del muro di sostegno a valle (consistente nella rotazione della verticale della metà superiore) con uno spostamento di circa 30 cm in avanti. Tale deformazione non era dovuta ad un cedimento delle fondazioni che poggiavano sulla roccia bensì, alla presenza al di sotto del basolato della piazza di un terrapieno di materiale scadente e mancante di opere di drenaggio; le infiltrazioni d'acqua dal basolato dopo le nevicate causavano un aumento di volume e di peso esercitando una notevole spinta contro il muro.
Il 14 novembre 1896 l'assessore cav. Vincenzo Figlia emanò l'ordinanza di sgombero delle case sottostanti la piazza Duomo, dato che gli abitanti non avevano lasciato libere le abitazioni.
Qualche mese dopo l'amministrazione comunale “ritenendo giusti i desideri della popolazione” di ampliare la piazza diede incarico all'ingegnere Carapezza di redigere un progetto di massima.
L'elaborato prevedeva un allargamento della piazza di 195 mq circa, attraverso la realizzazione di sette speroni e sei volte a botte. Il preventivo di spesa per tale progetto risultò di £. 22.000.
In data 9 aprile 1897 l'ingegnere Carapezza presentò il progetto con la relazione di accompagnamento e i calcoli di stabilità. Nel progetto esecutivo i previsti 195 mq di allargamento della piazza raggiunsero i 280 mq circa.
Le spese indicate nell'estimativo ammontavano a £.27.000 cosi ripartite: scavi e trasporti a rifiuto £. 170,12, muratura in fondazione £. 1.887,52, muratura in elevazione £.19.859,69, sistemazione del vecchio lastricato £ 2.708,17 , opere impreviste £ 2.374,50.
Tenuto conto che la costruzione dei sette speroni e delle sei volte a botte avrebbero danneggiato le abitazioni e le proprietà vicine, fu previsto un indennizzo ai proprietari. Gli indennizzi stabiliti dal progettista, su incarico dell'amministrazione comunale, furono cosi suddivisi: agli eredi Vaccarella £.3.000, a Cilibrasi Calogero £.150, a D'Argento Antonino £.25, a Gianforte Filippo £.40, a Purpi Antonio £.200, a Gaudio Giuseppa vedova Bellina £.460 per una somma totale di £.3.875. I proprietari delle abitazioni non subirono un esproprio totale ma parziale in quanto gli archi ebbero un'altezza superiore, lasciando gli edifici al di sotto.
Il capitolato d'appalto presentato il 31 ottobre 1897 specificava il tipo di lavori da effettuare, i materiali da utilizzare, la spesa e il sistema di aggiudicazione dell'appalto. In particolare per i materiali fu usato, il calcare bianco della cava di Fasanò.
Il sistema attuato per l'aggiudicazione dell'appalto fu la trattativa d'asta con il metodo della candela vergine, quindi con offerte a ribasso sull'ammontare dell'appalto; fu aggiudicato a Chiara Calogero fu Nicolò con il prezzo di £.18.222,87.
Durante l'esecuzione dei lavori affiorarono vari imprevisti che portarono ad un aumento dei lavori, con conseguente aumento delle spese.
Il computo estimativo venne rifatto dall'ingegnere Carapezza e la spesa prevista ammontò a £.31.740,67 per cui l'amministrazione comunale dovette far fronte all'imprevisto aumento.
Il risultato finale del progetto lo possiamo ammirare tutt'oggi, infatti, la Piazza Duomo di Petralia Sottana é stata realizzata sfruttando quel meraviglioso paesaggio offerto dalla valle dell'Imera meridionale e contemporaneamente il Duomo e gli “Archi” che la dominano da uno sperone del centro abitato.
Dopo l'accurato studio del progetto dell'ingegnere petraliese sugli Archi, (attualmente conservato nell'archivio storico comunale di Petralia Sottana cartella per archivi anno 1901-1903) da parte degli architetti Renato Valenza, Denis Vitellaro e Giovanni Zarbo, anche Emerico Carapezza è stato inserito nell'atlante degli Artisti Siciliani-Architettura, curato da Luigi Sarullo e aggiornato al 1993 da Maria Clara Ruggieri Tricoli, avendo così colmato un vuoto documentario dello stesso atlante.
Gli Archi compiono cento anni e dall'indagine effettuata sullo stato di fatto è emersa la presenza di degradi diffusi e di dissesti di piccole e quasi irrilevanti porzioni, di conseguenza l'intervento di conservazione nasce come logica indiscutibile.
Arch. Renato Valenza
Petralesi d'altri tempi: U zù Rorò
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 3 del 18 gennaio 2003
U zù Rorò era il professore d’italiano dell’Istituto Magistrale, unica scuola superiore, nella zona, frequentata da tutti quelli che volevano continuare a studiare. Conosceva il manuale di letteratura, il Sansone, quasi a memoria e anno dopo anno ne ripeteva gli stessi percorsi. Ovviamente amava Foscolo e Manzoni, ma ci faceva leggere e studiare anche Macchiavelli, Parini e Goldoni. Il suo italiano era cadenzato ed impregnato del forte accento locale con frasi dette come per essere scolpite nella pietra di cui il suo paese da sempre abbonda. Spesso però si rivolgeva a noi in dialetto soprattutto per sottolineare, con ironia devastante, le nostre bestialità o per sparare memorabili e inappellabili sentenze. Noi studenti lo chiamavamo ( ma solo noi e a bassa voce ) “ zu Rorò “ con una puntina di affettuosa ironia, tenuto conto del significato che la parola “ zu “ ha in Sicilia, come titolo di persona vicina a cui però si deve rispetto e che si fa rispettare. Nella scuola . come importanza, era secondo solo alla “ za Maria ”, la preside di ferro, terrore oltre che di noi studenti anche di tutto il corpo docenti marito e fratello compresi che insegnavano nella stessa scuola.Al suono della campanella la scolaresca aspettava, nell’aula scalcinata, con quella tipica allegria mista a preoccupazione del primo giorno di scuola. Più preoccupazione che allegria, in questo caso, considerando la fama che accompagnava il professore. Questi improvvisamente si materializzava sulla porta: non alto, anzi basso, ma lo stesso imponente, impettito nel suo abito perfettamente in ordine, baffo nero curato, non un capello fuori posto, viso sbarbato e braccio sinistro piegato a reggere il registro sul cuore. Girando appena la testa si soffermava a scrutare con occhi saettanti i poveri alunni scattati in piedi e nel silenzio profondo, prorompeva improvvisamente in un urlo terrificante:
-Tu!! Vile! Come osi! Come ti permetti!!!
Il malcapitato, su cui aveva puntato lo sguardo lampeggiante, annaspava con il cervello alla ricerca frenetica di una ragione: “ Che cosa ho fatto? Ma dice proprio a me? ” chiedeva con occhi disperati ai compagni che non potevano aiutarlo.
- Si proprio a te! – come leggendogli nel pensiero, - ma guarda che faccia! Tenevi le mani sul banco!! Sull’attenti devi stare! Perfettamente sull’attenti! Hai capito? E ricordati che quando qui entro io, entra il tuo Dio !! Io sono il vostro Dio !!! E’ chiaro?-
A questo punto saliva solenne in cattedra, si sedeva sulla sedia che non era più una povera sedia ma un trono e, dopo aver roteato ancora lo sguardo inceneritore per tutta la classe, con studiata lentezza e con un cenno della mano magnanima concedeva ai tramortiti alunni di sedersi e tirare un respiro.Per tre anni , tanto durava il suo ciclo, “ u zu Rorò “ non avrebbe avuto problemi di disciplina e anche quello che insegnava sembrava più importante, ogni suo giudizio Cassazione.Naturalmente non era cattivo, se doveva portare un cinque a sei non si faceva pregare ma ci costringeva a studiare e cavava qualche succo anche dalle teste di rapa. Non lo faceva capire, ma nei consigli di classe si schierava dalla parte dei ragazzi, intercedendo qualche volta anche presso la terribile “ za Maria “ con la quale aveva scelto filosoficamente e stranamente, considerato il suo maschilismo, una linea di non belligeranza come nella mitologia greca Giove con il Fato. Delle colleghe si capiva che non aveva grande opinione, ma con i colleghi e gli amici era compagnone e non disdegnava allegre riunioni conviviali. Forse però anche il suo maschilismo era di facciata: era sposato e conviveva, a quanto si sapeva, felicemente con moglie e due o tre serissime figlie.Un giorno che insolitamente ritardava, noi studenti, già in quarta, increduli per la insperata vacanza ci eravamo scatenati nella solita liberatoria e violentissima rissa di classe. Vincenzo Licata, che non amava i giuochi violenti, ma che voleva lo stesso essere della partita, si era defilato scegliendosi il compito di vedetta. E mentre nell’aula volavano sberle, pedate libri e ferfino pezzi di banchi, come un ufficiale di marina con l’occhio incollato ad un buco della sgangherata porta semiaperta verso il corridoio, Vincenzo scandagliava il punto d’arrivo dei professori roteando la mano sinistra, dava il tempo alla gazzarra: - Forza ragazzi che oggi “ u zu Rorò “ non viene –
Non aveva finito la frase, che un pedatone sul di dietro gli inzuccava la fronte contro la porta e girandosi come una furia si trovava di fronte “ u zu Rorò “: - No Vicinzù, ca cca jè u zu Rorò –
Era arrivati inspiegabilmente, con passo felpato, dalla parte opposta. Vincenzo , rosso di rabbia e di vergogna, correva al suo posto mentre noi compagni, rigidi sull’attenti, facevamo sforzi sovrumani per non scoppiare a ridere. “ U zu Rorò “ entrava solenne come al solito con un impercettibile tremolio sotto il baffo : forse voleva ridere come noi, ma anche quella volta riuscì a non ridere.
U zù Rorò era il professore d’italiano dell’Istituto Magistrale, unica scuola superiore, nella zona, frequentata da tutti quelli che volevano continuare a studiare. Conosceva il manuale di letteratura, il Sansone, quasi a memoria e anno dopo anno ne ripeteva gli stessi percorsi. Ovviamente amava Foscolo e Manzoni, ma ci faceva leggere e studiare anche Macchiavelli, Parini e Goldoni. Il suo italiano era cadenzato ed impregnato del forte accento locale con frasi dette come per essere scolpite nella pietra di cui il suo paese da sempre abbonda. Spesso però si rivolgeva a noi in dialetto soprattutto per sottolineare, con ironia devastante, le nostre bestialità o per sparare memorabili e inappellabili sentenze. Noi studenti lo chiamavamo ( ma solo noi e a bassa voce ) “ zu Rorò “ con una puntina di affettuosa ironia, tenuto conto del significato che la parola “ zu “ ha in Sicilia, come titolo di persona vicina a cui però si deve rispetto e che si fa rispettare. Nella scuola . come importanza, era secondo solo alla “ za Maria ”, la preside di ferro, terrore oltre che di noi studenti anche di tutto il corpo docenti marito e fratello compresi che insegnavano nella stessa scuola.Al suono della campanella la scolaresca aspettava, nell’aula scalcinata, con quella tipica allegria mista a preoccupazione del primo giorno di scuola. Più preoccupazione che allegria, in questo caso, considerando la fama che accompagnava il professore. Questi improvvisamente si materializzava sulla porta: non alto, anzi basso, ma lo stesso imponente, impettito nel suo abito perfettamente in ordine, baffo nero curato, non un capello fuori posto, viso sbarbato e braccio sinistro piegato a reggere il registro sul cuore. Girando appena la testa si soffermava a scrutare con occhi saettanti i poveri alunni scattati in piedi e nel silenzio profondo, prorompeva improvvisamente in un urlo terrificante:
-Tu!! Vile! Come osi! Come ti permetti!!!
Il malcapitato, su cui aveva puntato lo sguardo lampeggiante, annaspava con il cervello alla ricerca frenetica di una ragione: “ Che cosa ho fatto? Ma dice proprio a me? ” chiedeva con occhi disperati ai compagni che non potevano aiutarlo.
- Si proprio a te! – come leggendogli nel pensiero, - ma guarda che faccia! Tenevi le mani sul banco!! Sull’attenti devi stare! Perfettamente sull’attenti! Hai capito? E ricordati che quando qui entro io, entra il tuo Dio !! Io sono il vostro Dio !!! E’ chiaro?-
A questo punto saliva solenne in cattedra, si sedeva sulla sedia che non era più una povera sedia ma un trono e, dopo aver roteato ancora lo sguardo inceneritore per tutta la classe, con studiata lentezza e con un cenno della mano magnanima concedeva ai tramortiti alunni di sedersi e tirare un respiro.Per tre anni , tanto durava il suo ciclo, “ u zu Rorò “ non avrebbe avuto problemi di disciplina e anche quello che insegnava sembrava più importante, ogni suo giudizio Cassazione.Naturalmente non era cattivo, se doveva portare un cinque a sei non si faceva pregare ma ci costringeva a studiare e cavava qualche succo anche dalle teste di rapa. Non lo faceva capire, ma nei consigli di classe si schierava dalla parte dei ragazzi, intercedendo qualche volta anche presso la terribile “ za Maria “ con la quale aveva scelto filosoficamente e stranamente, considerato il suo maschilismo, una linea di non belligeranza come nella mitologia greca Giove con il Fato. Delle colleghe si capiva che non aveva grande opinione, ma con i colleghi e gli amici era compagnone e non disdegnava allegre riunioni conviviali. Forse però anche il suo maschilismo era di facciata: era sposato e conviveva, a quanto si sapeva, felicemente con moglie e due o tre serissime figlie.Un giorno che insolitamente ritardava, noi studenti, già in quarta, increduli per la insperata vacanza ci eravamo scatenati nella solita liberatoria e violentissima rissa di classe. Vincenzo Licata, che non amava i giuochi violenti, ma che voleva lo stesso essere della partita, si era defilato scegliendosi il compito di vedetta. E mentre nell’aula volavano sberle, pedate libri e ferfino pezzi di banchi, come un ufficiale di marina con l’occhio incollato ad un buco della sgangherata porta semiaperta verso il corridoio, Vincenzo scandagliava il punto d’arrivo dei professori roteando la mano sinistra, dava il tempo alla gazzarra: - Forza ragazzi che oggi “ u zu Rorò “ non viene –
Non aveva finito la frase, che un pedatone sul di dietro gli inzuccava la fronte contro la porta e girandosi come una furia si trovava di fronte “ u zu Rorò “: - No Vicinzù, ca cca jè u zu Rorò –
Era arrivati inspiegabilmente, con passo felpato, dalla parte opposta. Vincenzo , rosso di rabbia e di vergogna, correva al suo posto mentre noi compagni, rigidi sull’attenti, facevamo sforzi sovrumani per non scoppiare a ridere. “ U zu Rorò “ entrava solenne come al solito con un impercettibile tremolio sotto il baffo : forse voleva ridere come noi, ma anche quella volta riuscì a non ridere.
Il debutto della banda musicale di Petralia Sottana
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 2 del 21 dicembre 2002
Non tutti sanno che l’edificio dell’attuale cinema, prima adibito a teatro, fù opera del commissario Conte Grifeo mandato da Palermo a Petralia Sottana nel 1856 per affiancare l’allora sindaco Porrivecchi a risolvere un contenzioso tra il nostro comune ed i comuni viciniori, e non tutti sanno che lo stesso su pressione sempre del Porrivecchi fu l’artefice della nascita della banda musicale. Infatti con le sue amicizie nella capitale riuscì ad ottenere il trasferimento dal Regio Teatro Carolino di Palermo a Petralia Sottana di Girolamo Leto che fù maestro del Corpo di Musica Municipale fino al 1909.Questi giunse a Petralia la sera del 5 maggio 1858, e dopo aver appianato tutto con il sindaco ed aver ordinato gli strumenti a Palermo, scelse i componenti della futura banda tra i pochi musicisti ed amanti della musica.
Dopo pochi giorni incominciò lo studio e dopo due mesi le prove concertistiche.
Finalmente l’otto dicembre del 1858 in occasione della festa dell’Immacolata la banda composta da 15 musicanti già di buon mattino era pronta per il primo servizi.
Per Petralia, che a quei tempi solo in rare occasioni aveva ospitato altre bande musicali, quel giorno fu un evento straordinario. La cittadinanza già di buon mattino si era portata di fronte al Palazzo Municipale e fremeva per l’arrivo della nuova banda, come anche,l’arciconfraternita dell’Immacolata Concezione che aveva scelto la banda locale e l’amministrazione che doveva mostrare quella che era una loro realizzazione. Questa occasione importante per l’aspetto sopra descritto divenne pure famosa per un fatto assai strano alquanto inverosimile. Scrive in “Petralia d’altri tempi” , Giuseppe Collisani, storico e narratore degli anni 20 del secolo scorso, un aneddoto in merito, intitolato “Musica e grugniti”, che narra:- Quel giorno di buon ora la nuova banda con al seguito il sindaco con i suoi decurioni e buona parte della cittadinanza, inizia il giro delle strade principali partendo da palazzo Polizzello si avvia a percorrere quel tortuoso e stretto corso, che allargato livellato e lastricato tredici anni dopo divenne l’attuale corso Paolo Agliata. In prossimità dell’attuale Piazza della Vittoria in quell’angolo dove ora vi è il Monumento ai Caduti a quei tempi sfociavano le fogne dei quartieri alti del paese, era pure luogo dove venivano buttati i rifiuti e quindi luogo preferito dai maiali allevati in paese per sguazzarvi. Quando la banda arrivò in quel malsanico posto i maiali terrorizzati per lo strano frastuono si imbestialirono e scapparono per tutte le direzioni, ma trovandosi tutte le strade chiuse dalla popolazione e dalla banda trovando in mezzo a questa la più facile vie di esodo ancora zeppi di melma vi si addentrarono, tra lo scompiglio generatovi fu pure chi rimase suo malgrado a cavallo di uno dei più grossi maiali che intanto tornato indietro si era rituffato in quello stagno. Alla banda venne meno quel giorno uno dei più bravi musicanti, ma riorganizzata e pulita alla meglio riuscì lo stesso e con lo stesso entusiasmo di prima a dare il meglio di se stessa soddisfacendo le aspettative dei compaesani.
Da allora sono passati 144 anni ed ancora vivo è in alcuni cittadini di Petralia l’entusiasmo per la banda musicale che tra svariate vicissitudini ancora esiste. Se ancor oggi c’è una banda nei comuni di Castellana e Petralia è merito sicuramente di alcune persone che,senza oscure finalità hanno donato il meglio di loro stessi, e tralasciando,spesso,persino impegni di famiglia e di lavoro, hanno messo gli impegni musicali e la banda stessa al primo posto. Malgrado lo scarso interesse delle amministrazioni comunali, ultimamente completamente assenti, questa gente è riuscita attraverso la banda a continuare quella tradizione e quella cultura oramai centenaria che in passato ha distinto entrambi i comuni, e far in modo che il Corpo di Musica assieme alle altre associazioni culturali lasci un segno sicuramente tangibile e positivo ai posteri.
Antonino Fustaino
Non tutti sanno che l’edificio dell’attuale cinema, prima adibito a teatro, fù opera del commissario Conte Grifeo mandato da Palermo a Petralia Sottana nel 1856 per affiancare l’allora sindaco Porrivecchi a risolvere un contenzioso tra il nostro comune ed i comuni viciniori, e non tutti sanno che lo stesso su pressione sempre del Porrivecchi fu l’artefice della nascita della banda musicale. Infatti con le sue amicizie nella capitale riuscì ad ottenere il trasferimento dal Regio Teatro Carolino di Palermo a Petralia Sottana di Girolamo Leto che fù maestro del Corpo di Musica Municipale fino al 1909.Questi giunse a Petralia la sera del 5 maggio 1858, e dopo aver appianato tutto con il sindaco ed aver ordinato gli strumenti a Palermo, scelse i componenti della futura banda tra i pochi musicisti ed amanti della musica.
Dopo pochi giorni incominciò lo studio e dopo due mesi le prove concertistiche.
Finalmente l’otto dicembre del 1858 in occasione della festa dell’Immacolata la banda composta da 15 musicanti già di buon mattino era pronta per il primo servizi.
Per Petralia, che a quei tempi solo in rare occasioni aveva ospitato altre bande musicali, quel giorno fu un evento straordinario. La cittadinanza già di buon mattino si era portata di fronte al Palazzo Municipale e fremeva per l’arrivo della nuova banda, come anche,l’arciconfraternita dell’Immacolata Concezione che aveva scelto la banda locale e l’amministrazione che doveva mostrare quella che era una loro realizzazione. Questa occasione importante per l’aspetto sopra descritto divenne pure famosa per un fatto assai strano alquanto inverosimile. Scrive in “Petralia d’altri tempi” , Giuseppe Collisani, storico e narratore degli anni 20 del secolo scorso, un aneddoto in merito, intitolato “Musica e grugniti”, che narra:- Quel giorno di buon ora la nuova banda con al seguito il sindaco con i suoi decurioni e buona parte della cittadinanza, inizia il giro delle strade principali partendo da palazzo Polizzello si avvia a percorrere quel tortuoso e stretto corso, che allargato livellato e lastricato tredici anni dopo divenne l’attuale corso Paolo Agliata. In prossimità dell’attuale Piazza della Vittoria in quell’angolo dove ora vi è il Monumento ai Caduti a quei tempi sfociavano le fogne dei quartieri alti del paese, era pure luogo dove venivano buttati i rifiuti e quindi luogo preferito dai maiali allevati in paese per sguazzarvi. Quando la banda arrivò in quel malsanico posto i maiali terrorizzati per lo strano frastuono si imbestialirono e scapparono per tutte le direzioni, ma trovandosi tutte le strade chiuse dalla popolazione e dalla banda trovando in mezzo a questa la più facile vie di esodo ancora zeppi di melma vi si addentrarono, tra lo scompiglio generatovi fu pure chi rimase suo malgrado a cavallo di uno dei più grossi maiali che intanto tornato indietro si era rituffato in quello stagno. Alla banda venne meno quel giorno uno dei più bravi musicanti, ma riorganizzata e pulita alla meglio riuscì lo stesso e con lo stesso entusiasmo di prima a dare il meglio di se stessa soddisfacendo le aspettative dei compaesani.
Da allora sono passati 144 anni ed ancora vivo è in alcuni cittadini di Petralia l’entusiasmo per la banda musicale che tra svariate vicissitudini ancora esiste. Se ancor oggi c’è una banda nei comuni di Castellana e Petralia è merito sicuramente di alcune persone che,senza oscure finalità hanno donato il meglio di loro stessi, e tralasciando,spesso,persino impegni di famiglia e di lavoro, hanno messo gli impegni musicali e la banda stessa al primo posto. Malgrado lo scarso interesse delle amministrazioni comunali, ultimamente completamente assenti, questa gente è riuscita attraverso la banda a continuare quella tradizione e quella cultura oramai centenaria che in passato ha distinto entrambi i comuni, e far in modo che il Corpo di Musica assieme alle altre associazioni culturali lasci un segno sicuramente tangibile e positivo ai posteri.
Antonino Fustaino
La storia del Cine Teatro Grifeo
Articolo pubblicato su Il Petrino n° 2 del 21 dicembre 2002
Riportiamo con piacere una sintesi della storia del Cine Teatro Grifeo, scritta dal compianto professore Buonaventura Licata.
Vogliamo ora far cenno ad un fatto singolare che ha portato Petralia Sottana ad avere un teatro, degno di questo nome, già nella primavera del 1862.
All’inizio del 1858 era crollato il ponte della “ Madonnuzza” sul fiume Imera, unico collegamento di Petralia con i comuni vicini che se ne servivano per accedere ai mulini ad acqua esistenti lungo il corso dell’Imera, e che erano i soli in tutta la zona.Il decurionato di Petralia Sottana avanzò richiesta al Governo affinché ordinasse ai comuni interessati la contribuzione nella spesa.
La pratica minacciava di diventare lunga, quando il Governo inviò sul luogo come commissario il Conte Grifeo. Questo signore si dimostrò subito un accorto ed abile amministratore oltre ad essere un uomo di mondo, musicista, filodrammatico ed appassionato di ogni espressione d’arte. Infatti, fissate ai singoli paesi le quote di partecipazione per la ricostruzione del ponte, pensò, sfruttando la ricchezza dei nostri boschi, di ridurre la quota in denaro che Petralia Sottana doveva versare, sostituendola con la fornitura del legname occorrente per la realizzazione del ponte. Così nell’Aprile del 1858 il Conte Grifeo consegnò all’allora sindaco Porrivecchi, 218 onze che furono destinate per adattare a Teatro il magazzino della Rabba (deposito di derrate alimentari che servivano per essere distribuite ai non abbienti nei periodi difficili dell’anno) che fu trasferito altrove. Un altro aspetto della vicenda ha poi visto protagonisti diversi cittadini benestanti di Petralia Sottana che si sono tassati per acquistare il diritto ad avere la prelazione su ognuno dei palchi del costruendo Teatro, per assistere agli spettacoli che vi si sarebbero rappresentati, pur pagando il biglietto d’ingresso per ogni persona intervenuta al costo di un posto di platea. I lavori, iniziati subito, furono interrotti per le vicende politiche del 1860, ma furono ripresi e portati al termine nel 1862.Fu inaugurato in grande stile e da allora ha sempre esercitato un ruolo di vera promozione culturale sia per la gente di Petralia che per quella dei paesi circonvicini, che su Petralia gravitano.Con il passare degli anni il locale ha avuto bisogno di interventi radicali di restauro che ne hanno modificato la forma e la struttura (resta il rammarico di avere abbattuto i palchi), continuando però a svolgere il suo ruolo di spettacolo, di dibattiti e convegni.
Riportiamo con piacere una sintesi della storia del Cine Teatro Grifeo, scritta dal compianto professore Buonaventura Licata.
Vogliamo ora far cenno ad un fatto singolare che ha portato Petralia Sottana ad avere un teatro, degno di questo nome, già nella primavera del 1862.
All’inizio del 1858 era crollato il ponte della “ Madonnuzza” sul fiume Imera, unico collegamento di Petralia con i comuni vicini che se ne servivano per accedere ai mulini ad acqua esistenti lungo il corso dell’Imera, e che erano i soli in tutta la zona.Il decurionato di Petralia Sottana avanzò richiesta al Governo affinché ordinasse ai comuni interessati la contribuzione nella spesa.
La pratica minacciava di diventare lunga, quando il Governo inviò sul luogo come commissario il Conte Grifeo. Questo signore si dimostrò subito un accorto ed abile amministratore oltre ad essere un uomo di mondo, musicista, filodrammatico ed appassionato di ogni espressione d’arte. Infatti, fissate ai singoli paesi le quote di partecipazione per la ricostruzione del ponte, pensò, sfruttando la ricchezza dei nostri boschi, di ridurre la quota in denaro che Petralia Sottana doveva versare, sostituendola con la fornitura del legname occorrente per la realizzazione del ponte. Così nell’Aprile del 1858 il Conte Grifeo consegnò all’allora sindaco Porrivecchi, 218 onze che furono destinate per adattare a Teatro il magazzino della Rabba (deposito di derrate alimentari che servivano per essere distribuite ai non abbienti nei periodi difficili dell’anno) che fu trasferito altrove. Un altro aspetto della vicenda ha poi visto protagonisti diversi cittadini benestanti di Petralia Sottana che si sono tassati per acquistare il diritto ad avere la prelazione su ognuno dei palchi del costruendo Teatro, per assistere agli spettacoli che vi si sarebbero rappresentati, pur pagando il biglietto d’ingresso per ogni persona intervenuta al costo di un posto di platea. I lavori, iniziati subito, furono interrotti per le vicende politiche del 1860, ma furono ripresi e portati al termine nel 1862.Fu inaugurato in grande stile e da allora ha sempre esercitato un ruolo di vera promozione culturale sia per la gente di Petralia che per quella dei paesi circonvicini, che su Petralia gravitano.Con il passare degli anni il locale ha avuto bisogno di interventi radicali di restauro che ne hanno modificato la forma e la struttura (resta il rammarico di avere abbattuto i palchi), continuando però a svolgere il suo ruolo di spettacolo, di dibattiti e convegni.
Tra passato e presente, dalle legende alla cruda realtà
“I cittadini petraliesi anche in occasione della seconda serata Pro-Due Croci, hanno dato prova di grande patriottismo intervenendo numerosi al Teatro Comunale all’esibizione del Ballo Pantomima della Cordella, eseguito graziosamente da un gruppo di contadini di Castellana Sicula”.
Ecco quanto scriveva Francesco Tropea nel numero 1 di Giglio di Roccia nel lontano maggio 1934. Evidentemente don Ciccio rimase favorevolmente impressionato da quel ballo, tanto che negli anni che seguirono, assieme a Giuseppe Collisani cercò di rivalutare, oltre a tante importanti tradizioni popolari locali, anche quel Ballo della Cordella. Per volontà del Tropea, dunque, si riprese e si interpretò l’antico Ballo Pantomima della Cordella, la cui prima uscita pubblica, a Petralia Sottana, avvenne nel 1936. E’ chiaro che il lavoro intrapreso da don Ciccio Tropea non si interruppe dopo l’esibizione, ma continuò negli anni che seguirono, sempre con dedizione e passione. Anche i petraliesi, dal canto loro, collaborarono a portare avanti quel progetto, e al di là del patriottismo sottolineato dal cavaliere, sentirono da subito come propria quella nuova manifestazione la cui origine fu sicuramente ricercata nei balli campestri che avvenivano alla fine dell’estate e a raccolto già avvenuto.
Non a caso, allora, la data scelta per la manifestazione, originariamente, fu quella dell’ultima settimana di settembre, data che mutò, comunque, molto frequentemente negli anni avvenire fino a stabilizzarsi per un lungo periodo intorno alla prima decade di settembre. Tale scelta non era stata casuale, infatti la “PRO-PETRALIA” tentando di affermare la fisionomia di Petralia Sottana nella valorizzazione delle Madonie, proprio nei primi anni ’50 ricreò una leggenda dei tempi lontani..
La tradizione narrava che tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, i Greci e i Romani amavano salutare Proserpina che partiva per la profondità dei suoi regni con feste e giuochi, che avrebbero, contemporaneamente, consolato anche Cerere per la dipartita della figlia.
Con ideale accostamento alla leggenda pagana, Tropea, pensò che tale tradizione potesse rinnovarsi invece attraverso la rievocazione di un caratteristico corteo nuziale nella sua antica forma a cavallo, che in ogni caso molto si rifaceva al mito di Cerere perché anche il nuovo evento rappresentava la partenza della figlia, in questo caso sposa, dalla casa paterna verso la casa nuova.
Dal 1952, dunque, Ballo della Cordella e Corteo Nuziale diventano quasi un tutt’uno, adesso anche per motivi legati alle presenze turistiche l’evento si celebra la prima domenica dopo ferragosto, però rispetto agli anni passati queste manifestazioni vengono rievocate in maniera sonnolenta e con una certa abulia. Nel 1984, cogliendo l’occasione della presenza jugoslava, greca e sveva, in occasione del I° Torneo Internazionale di tennis “Under 16” si tentò di dare una nuova linfa alle due manifestazioni e prendendo spunto di quanto avveniva a conclusione del programma estivo “Madonie”, che si svolse con grande successo negli anni settanta, si fece accompagnare la Cordella ed il Corteo Nuziale da una sfilata di rappresentanti in costume, da complessi corali e bandistici “ideando” così un raduno di folklore con esibizione serale dei gruppi presso il teatro della pineta comunale.
Originariamente iniziato come raduno Internazionale, a cui successivamente fu aggiunto l’appellativo di Mediterraneo, in questi ultimi anni ha mostrato molto poco sia di Internazionale che di Mediterraneo diventando una partecipazione ad invito, con organizzazione discutibile, che in alcuni casi ha lasciato molto a desiderare. Ultima in ordine di apparizione "a Serenata a Zita", che la Pro-Loco ha introdotto solo da qualche anno per "movimentare il sabato sera che precede il giorno della Cordella, del Corteo e del raduno.Ottime le intenzioni, ma tutto il resto non può che essere sottoposto a dura critica, è vero che ancora questo evento non ha ancora una sua fisionomia, ma il rischio che stiamo correndo è che di quelle che dovrebbero essere quattro belle manifestazioni folckloristiche, che dovrebbero richiamare una grande utenza turistica, non riusciamo ad offrirne una degna e al pari di quelle che i comuni vicini propongono.
Francesco Minneci
Ecco quanto scriveva Francesco Tropea nel numero 1 di Giglio di Roccia nel lontano maggio 1934. Evidentemente don Ciccio rimase favorevolmente impressionato da quel ballo, tanto che negli anni che seguirono, assieme a Giuseppe Collisani cercò di rivalutare, oltre a tante importanti tradizioni popolari locali, anche quel Ballo della Cordella. Per volontà del Tropea, dunque, si riprese e si interpretò l’antico Ballo Pantomima della Cordella, la cui prima uscita pubblica, a Petralia Sottana, avvenne nel 1936. E’ chiaro che il lavoro intrapreso da don Ciccio Tropea non si interruppe dopo l’esibizione, ma continuò negli anni che seguirono, sempre con dedizione e passione. Anche i petraliesi, dal canto loro, collaborarono a portare avanti quel progetto, e al di là del patriottismo sottolineato dal cavaliere, sentirono da subito come propria quella nuova manifestazione la cui origine fu sicuramente ricercata nei balli campestri che avvenivano alla fine dell’estate e a raccolto già avvenuto.
Non a caso, allora, la data scelta per la manifestazione, originariamente, fu quella dell’ultima settimana di settembre, data che mutò, comunque, molto frequentemente negli anni avvenire fino a stabilizzarsi per un lungo periodo intorno alla prima decade di settembre. Tale scelta non era stata casuale, infatti la “PRO-PETRALIA” tentando di affermare la fisionomia di Petralia Sottana nella valorizzazione delle Madonie, proprio nei primi anni ’50 ricreò una leggenda dei tempi lontani..
La tradizione narrava che tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, i Greci e i Romani amavano salutare Proserpina che partiva per la profondità dei suoi regni con feste e giuochi, che avrebbero, contemporaneamente, consolato anche Cerere per la dipartita della figlia.
Con ideale accostamento alla leggenda pagana, Tropea, pensò che tale tradizione potesse rinnovarsi invece attraverso la rievocazione di un caratteristico corteo nuziale nella sua antica forma a cavallo, che in ogni caso molto si rifaceva al mito di Cerere perché anche il nuovo evento rappresentava la partenza della figlia, in questo caso sposa, dalla casa paterna verso la casa nuova.
Dal 1952, dunque, Ballo della Cordella e Corteo Nuziale diventano quasi un tutt’uno, adesso anche per motivi legati alle presenze turistiche l’evento si celebra la prima domenica dopo ferragosto, però rispetto agli anni passati queste manifestazioni vengono rievocate in maniera sonnolenta e con una certa abulia. Nel 1984, cogliendo l’occasione della presenza jugoslava, greca e sveva, in occasione del I° Torneo Internazionale di tennis “Under 16” si tentò di dare una nuova linfa alle due manifestazioni e prendendo spunto di quanto avveniva a conclusione del programma estivo “Madonie”, che si svolse con grande successo negli anni settanta, si fece accompagnare la Cordella ed il Corteo Nuziale da una sfilata di rappresentanti in costume, da complessi corali e bandistici “ideando” così un raduno di folklore con esibizione serale dei gruppi presso il teatro della pineta comunale.
Originariamente iniziato come raduno Internazionale, a cui successivamente fu aggiunto l’appellativo di Mediterraneo, in questi ultimi anni ha mostrato molto poco sia di Internazionale che di Mediterraneo diventando una partecipazione ad invito, con organizzazione discutibile, che in alcuni casi ha lasciato molto a desiderare. Ultima in ordine di apparizione "a Serenata a Zita", che la Pro-Loco ha introdotto solo da qualche anno per "movimentare il sabato sera che precede il giorno della Cordella, del Corteo e del raduno.Ottime le intenzioni, ma tutto il resto non può che essere sottoposto a dura critica, è vero che ancora questo evento non ha ancora una sua fisionomia, ma il rischio che stiamo correndo è che di quelle che dovrebbero essere quattro belle manifestazioni folckloristiche, che dovrebbero richiamare una grande utenza turistica, non riusciamo ad offrirne una degna e al pari di quelle che i comuni vicini propongono.
Francesco Minneci
Banca di Credito Cooperativo San Giuseppe: cento anni di storia
La banca petraliese è nata il quattro giugno 1905 per iniziativa di don Luciano Geraci, a quel tempo arciprete di Petralia Sottana. La Cassa Rurale di Depositi e Prestiti s.c.n.c., questo il suo primo nome, fu dunque ufficialmente fondata cento anni fa, con regolare atto sottoscritto dal Geraci e da altre venti persone presso lo studio del notaio Giuseppe Rossi, e si proponeva di intervenire in un settore assolutamente carente. Lo statuto prevedeva che potevano far parte di essa solo persone ossequienti della religione cattolica e dopo aver versato una quota di iscrizione, quasi simbolica, di una lira. Ai soci, venivano concessi crediti garantiti con tutti gli accorgimenti e cautele, sempre richiesti per operazioni del genere (avalli, ipoteche, pegni).
Dopo poco più di quattro mesi dalla sua fondazione, e precisamente il 22 ottobre del 1905, dopo che furono espletate tutte le formalità di legge, la neonata Cassa Rurale, aprì il suo unico sportello a Petralia Sottana in via Duomo, nei locali della Parrocchia. La prima assemblea dei soci elesse presidente l’ispiratore don Luciano Geraci e deliberò di aiutare l’economia petraliese, costituita, per la maggior parte, quasi solo da lavoratori temporanei ed instabili, patrocinando la costituzione di associazioni, in modo da riunire le varie categorie di operatori economici, e far migliorare le condizioni di miseria dei lavoratori della campagna. Nel 1914 la banca cambiò la sua denominazione in Cassa Agraria San Giuseppe, e il 20 marzo del 1938, dopo l’emanazione della nuova legge bancaria del 1937, si trasformò in Cassa Rurale ed Artigiana San Giuseppe, in quella occasione fu approvato dall’assemblea dei soci un nuovo statuto sociale.
Alla fine del 1977 rilevò ed acquisì la Cassa Rurale “Maria S.S. del Soccorso”, e dal 2 gennaio 1978 aprì la sua prima agenzia a Caltavuturo. Il 23 aprile del 1986 si inaugurò un’agenzia anche a Scillato, che però si chiuse cinque anni più tardi, per improduttività, allor quando il 9 settembre 1991 fu aperta l’agenzia di Polizzi Generosa. L’anno successivo si inaugurarono altre due agenzie, il 30 marzo 1992, quella di Castellana Sicula, ed l’11 maggio 1992 quella di Castelbuono. Infine, il 4 settembre 2000, entrò in funzione anche l’ultima nata, l’agenzia di Madonnuzza.
Il 27 novembre 1988 fu trasformata in Società Cooperativa a responsabilità limitata. L’11 dicembre dello stesso anno dopo l’inaugurazione dell’odierna sede, di proprietà della banca, lasciò l’angusta sede di via Aiello, che occupava fin dagli anni cinquanta, e si trasferì nel Corso Paolo Agliata.
Infine il 5 novembre 1995 prese l’attuale denominazione di Banca di Credito Cooperativo San Giuseppe di Petralia Sottana. Attualmente, tra la sede, e le cinque agenzie, la Banca conta 28 dipendenti.
Francesco Minneci
Dopo poco più di quattro mesi dalla sua fondazione, e precisamente il 22 ottobre del 1905, dopo che furono espletate tutte le formalità di legge, la neonata Cassa Rurale, aprì il suo unico sportello a Petralia Sottana in via Duomo, nei locali della Parrocchia. La prima assemblea dei soci elesse presidente l’ispiratore don Luciano Geraci e deliberò di aiutare l’economia petraliese, costituita, per la maggior parte, quasi solo da lavoratori temporanei ed instabili, patrocinando la costituzione di associazioni, in modo da riunire le varie categorie di operatori economici, e far migliorare le condizioni di miseria dei lavoratori della campagna. Nel 1914 la banca cambiò la sua denominazione in Cassa Agraria San Giuseppe, e il 20 marzo del 1938, dopo l’emanazione della nuova legge bancaria del 1937, si trasformò in Cassa Rurale ed Artigiana San Giuseppe, in quella occasione fu approvato dall’assemblea dei soci un nuovo statuto sociale.
Alla fine del 1977 rilevò ed acquisì la Cassa Rurale “Maria S.S. del Soccorso”, e dal 2 gennaio 1978 aprì la sua prima agenzia a Caltavuturo. Il 23 aprile del 1986 si inaugurò un’agenzia anche a Scillato, che però si chiuse cinque anni più tardi, per improduttività, allor quando il 9 settembre 1991 fu aperta l’agenzia di Polizzi Generosa. L’anno successivo si inaugurarono altre due agenzie, il 30 marzo 1992, quella di Castellana Sicula, ed l’11 maggio 1992 quella di Castelbuono. Infine, il 4 settembre 2000, entrò in funzione anche l’ultima nata, l’agenzia di Madonnuzza.
Il 27 novembre 1988 fu trasformata in Società Cooperativa a responsabilità limitata. L’11 dicembre dello stesso anno dopo l’inaugurazione dell’odierna sede, di proprietà della banca, lasciò l’angusta sede di via Aiello, che occupava fin dagli anni cinquanta, e si trasferì nel Corso Paolo Agliata.
Infine il 5 novembre 1995 prese l’attuale denominazione di Banca di Credito Cooperativo San Giuseppe di Petralia Sottana. Attualmente, tra la sede, e le cinque agenzie, la Banca conta 28 dipendenti.
Francesco Minneci